Questa crisi
del PD arriva in un momento maledettamente inopportuno.
Eppure come
dirigenti e militanti siamo chiamati a farci i conti, purtroppo in tempi
stretti.
La domanda da
cui partire per me sarebbe: dopo queste elezioni possiamo dire che il progetto
democratico è fallito?
Non
penso. Forse è fallito un progetto di partito per come fino ad oggi si è
sviluppato. Niente più e niente meno!
In effetti
Bersani si dimette per la complicata gestione del dopo elezioni che ha
portato Marini e poi Prodi ad infrangersi sullo scoglio di dissenso
interno a lungo celato dietro l'unanimismo.
Non si
dimette perchè ha perso le elezioni. Lo avrebbe fatto prima!
Tuttavia
queste dimissioni sono salutari. Sono il naturale epilogo di una situazione
interna incoerente e diventata insostenibile, mettendo a rischio il progetto.
Allora
esaminiamola questa situazione.
Il Pd, oltre
ad un grande progetto politico, è stato anche il punto di approdo di
una dirigenza nazionale ds-dl che già nel 2006 - dopo l'auto-affosamento del primo
governo dell'Ulivo, la carta "piaciona" di Rutelli e
l'esperienza defatigante dell'Unione - aveva mostrato tutti i
propri limiti. Il PD era stato "imposto" alla maggioranza di
questa classe dirigente dalla testardaggine prodiana e soprattutto
dall'esaurirsi delle ragioni ideali che avevano costituito la loro personale
storia politica. A ciò si è sommato, oltre al naturale istinto di
auto-conservazione di chi gestisce piccoli e grandi poteri, da un lato la
paura dell'apparato diessino (ben più forte e radicato del DL) di perdere
terreno, dall'altro la pretesa prodiana di fare del PD un partito fotocopia
dell'Ulivo, senza fare i conti con i limiti di quell'esperienza, dall'altra
ancora l'evidente sterilità della componente popolare che negli anni ha perso contatto
con la propria radice culturale ecclesiale che aveva sempre garantito il
ricambio generazionale.
A
fianco di questi dati "contingenti", c'è però anche
un'altro elemento più profondo da considerare: questi venti anni di
seconda repubblica hanno creato un elettorato di centro-sinistra abbastanza
omogeneo e de-ideologizzato, quelle "vaste praterie" che Scoppola
disegnava ad Orvieto nel 2006. L'interpretazione di questo elettorato
costituisce la ragion politica del PD.
Il PD è
quindi nato da una effettiva esigenza politica senza un'analisi condivisa
dei limiti di esperienze tanto diverse che gli davano vita e con la pretesa di
alcuni di farne ciò che essi volevano, per auto-perpetuarsi, senza ri-mettersi
in gioco veramente.
In questa
situazione il PD è stato guidato da tre segretari, tutti provenienti dalle
passate esperienze ma anche innovativi, sui quali vale la pena soffermarsi
per capire il cammino che ci ha portati alla crisi attuale.
In
effetti Veltroni nel suo anno e mezzo di reggenza del partito, passando di
sconfitta in sconfitta, tutto ha fatto (aprire il dialogo con il
Berlusconi della spallata, candidarsi a premier, partecipare alle campagne
elettorali, fare interviste) fuorchè fare ciò che è chiamato a fare
un segretario: radicare il partito.
Così
l'intuizione della "vocazione maggioritaria" si è persa dietro la
contingenza elettorale e tante parole.
Lo ha
seguito poi Franceschini in una situazione di tregua armata,
in quanto frutto di un compromesso tra dirigenti. Tante parole in attesa del
congresso, ma per forza di cosa poche realizzazioni
A questa
prima fase di segreteria è seguito Bersani che ricordiamolo fu eletto col 53%
dei suffragi in primarie aperte. Fu una corsa vera. Si voleva in
effetti fare chiarezza sul partito. La piattaforma programmatica di
Bersani era molto centrata invece su ciò che era in precedenza mancato: il
radicamento del partito, la ditta. A margine c'era una impostazione decisamente
di sinistra ma non esplicita, almeno per quanto attiene ai documenti politici.
Questa linea di sinistra "effettiva", con l’approssimarsi delle
elezioni, ha preso centralità e guidato il partito ad un'alleanza con SEL,
senza se e senza ma. Lo testimonia la feroce epurazione dalle liste per le
scorse politiche dei sottoscrittori dell'agenda Monti. Prima delle elezioni
Bersani ripeteva come un mantra: "noi organizziamo il nostro campo e loro
quello dei moderati". Un piglio decisionista e privo di sintesi che
evidentemente non ha pagato alle urne. Anche nella prassi del partito Bersani ha
privilegiato in ruoli chiave uomini "di sinistra". Stumpo
(organizzazione), Orfini (cultura), Orlando (giustizia), Fassina (economia),
Speranza (capogruppo deputati): tutte persone cresciute a pane e sinistra
giovanile, organizzazione oggi soppiantata dai Giovani Democratici che a tratti vivono con fatica il percorso verso la reale e necessaria sintesi culturale democratica. A ciò si è accompagnato il grande merito di Bersani:
il radicamento dei circoli e delle Federazioni del PD. Alla fine il PD oggi
c'è, con una sua organizzazione autonoma dai partiti fondatori. A Bersani ciò
va riconosciuto. Ha creato un campo contendibile!
Se questi
sono i fatti, oggi il partito vive una crisi profonda che a mio avviso
è salutare.
Perché è
chiaro che ad essere sconfitta alle elezioni non è stata la figura di Bersani
ma una impostazione di partito che si è stratificata in questi 5 anni e mezzo.
Se quest’analisi
è condivisibile, sono utili pertanto alcune considerazioni.
1) Il Pd deve darsi un missione storica: non è solo
l'unione di riformismi giustapposti ma un partito che cerca di interpretare una
sintesi politica ormai già matura nell'elettorato.
2) La coerenza democratica è la chiave per tale
interpretazione. Vuol dire che questa comunità politica deve comprendere il valore
"nobile" della partecipazione dei cittadini alla polis. Con la
democrazia non si scherza, soprattutto oggi non si gioca. Dire che si è contro
le correnti, vuol dire valorizzare il dibattito, il confronto serio ed
appassionato. Vuol dire nella pratica del partito valorizzare gli organi
attraverso cui si esprime la vita democratica interna alla comunità politica.
3) La direzione di sinistra non ha pagato in termini
elettorali. Il Pd non è il restyling del PCI-PDS-DS. Ciò non significa che il
PD debba automaticamente scegliere vie centriste. Deve aspirare ad essere
altro, facendo sintesi tra cattolicesimo democratico e sociale e la tradizione
riformista di sinistra. Il PD deve acquistare quella centralità nel sistema
politico che imponga l’alleanza ad altri soggetti politici. Ciò non significa
egemonizzare il quadro politico ma dirigerlo. Lo potrà fare con posizioni
nettamente riformiste in tutti i campi.
4) In effetti il PD non può retrocedere a partito
d'opinione, né può continuare ad essere un partito di oligarchie. Né può restare
una federazione di potentati. Deve ri-generarsi come partito della “gente”. Deve
riprendere il dialogo con la gente cercando di interpretarla prima che
dirigerla. Forse il PD fino ad oggi ha peccato proprio in questo: ha invertito
quel processo per cui il soggetto politico prima interpreta la società, poi la racconta
e le da risposte che sono condivise. Il Pd ha abdicato all’interpretazione,
allontanandosi dal suo corpo elettorale naturale (ceti meno abbienti, operai,
precari etc…) che gli preferisce da anni
Berlusconi e la Lega e oggi anche M5S.
5) Per fare ciò il PD
dovrebbe ripensare il rapporto tra comunità politica e persona valorizzando
l’autonomia di coscienza. Ciò non significa che ognuno si regola come gli pare
bensì porre limiti espliciti all’autonomia. Ad esempio il voto di fiducia non è
un caso di coscienza, votare una legge che permettesse tout court il matrimonio
agli omosessuali oppure l’aborto oltre
le 15 settimana lo è.
Spero di esser stato utile ai più, anche se queste sono
solo una parte delle valutazioni che mi venivano in mente guardando questa
situazione politica contingente. Anche perchè penso che questa non sia una crisi da dissoluzione ma una crisi da crescita democratica.