lunedì 13 maggio 2013

La crisi del PD!?


Questa crisi del PD arriva in un momento maledettamente inopportuno.
Eppure come dirigenti e militanti siamo chiamati a farci i conti, purtroppo in tempi stretti.
La domanda da cui partire per me sarebbe: dopo queste elezioni possiamo dire che il progetto democratico è fallito?
Non penso. Forse è fallito un progetto di partito per come fino ad oggi si è sviluppato. Niente più e niente meno!
In effetti Bersani si dimette per la complicata gestione del dopo elezioni che ha portato  Marini e poi Prodi ad infrangersi sullo scoglio di dissenso interno a lungo celato dietro l'unanimismo. 
Non si dimette perchè ha perso le elezioni. Lo avrebbe fatto prima!
Tuttavia queste dimissioni sono salutari. Sono il naturale epilogo di una situazione interna incoerente e diventata insostenibile, mettendo a rischio il progetto.
Allora esaminiamola questa situazione.

Il Pd, oltre ad un grande progetto politico, è stato anche il punto di approdo di una dirigenza nazionale ds-dl che già nel 2006 - dopo l'auto-affosamento del primo governo dell'Ulivo, la carta "piaciona" di Rutelli e l'esperienza defatigante dell'Unione - aveva mostrato tutti i propri limiti. Il PD era stato "imposto" alla maggioranza di questa classe dirigente dalla testardaggine prodiana e soprattutto dall'esaurirsi delle ragioni ideali che avevano costituito la loro personale storia politica. A ciò si è sommato, oltre al naturale istinto di auto-conservazione di chi gestisce piccoli e grandi poteri, da un lato la paura dell'apparato diessino (ben più forte e radicato del DL) di perdere terreno, dall'altro la pretesa prodiana di fare del PD un partito fotocopia dell'Ulivo, senza fare i conti con i limiti di quell'esperienza, dall'altra ancora l'evidente sterilità della componente popolare che negli anni ha perso contatto con la propria radice culturale ecclesiale che aveva sempre garantito il ricambio generazionale.
A fianco di questi dati "contingenti", c'è però anche un'altro elemento più profondo da considerare: questi venti anni di seconda repubblica hanno creato un elettorato di centro-sinistra abbastanza omogeneo e de-ideologizzato, quelle "vaste praterie" che Scoppola disegnava ad Orvieto nel 2006. L'interpretazione di questo elettorato costituisce la ragion politica del PD.

Il PD è quindi nato da una effettiva esigenza politica senza un'analisi condivisa dei limiti di esperienze tanto diverse che gli davano vita e con la pretesa di alcuni di farne ciò che essi volevano, per auto-perpetuarsi, senza ri-mettersi in gioco veramente.
In questa situazione il PD è stato guidato da tre segretari, tutti provenienti dalle passate esperienze ma anche innovativi, sui quali vale la pena soffermarsi per capire il cammino che ci ha portati alla crisi attuale.
 In effetti Veltroni nel suo anno e mezzo di reggenza del partito, passando di sconfitta in sconfitta, tutto ha fatto (aprire il dialogo con il Berlusconi della spallata, candidarsi a premier, partecipare alle campagne elettorali, fare interviste) fuorchè fare ciò  che è chiamato a fare un segretario: radicare il partito.
Così l'intuizione della "vocazione maggioritaria" si è persa dietro la contingenza elettorale e tante parole.
Lo ha seguito poi  Franceschini  in una situazione di tregua armata, in quanto frutto di un compromesso tra dirigenti. Tante parole in attesa del congresso, ma per forza di cosa poche realizzazioni
A questa prima fase di segreteria è seguito Bersani che ricordiamolo fu eletto col 53% dei suffragi in primarie aperte. Fu una corsa vera. Si voleva in effetti fare chiarezza sul partito. La piattaforma programmatica di Bersani era molto centrata invece su ciò che era in precedenza mancato: il radicamento del partito, la ditta. A margine c'era una impostazione decisamente di sinistra ma non esplicita, almeno per quanto attiene ai documenti politici. Questa linea di sinistra "effettiva", con l’approssimarsi delle elezioni, ha preso centralità e guidato il partito ad un'alleanza con SEL, senza se e senza ma. Lo testimonia la feroce epurazione dalle liste per le scorse politiche dei sottoscrittori dell'agenda Monti. Prima delle elezioni Bersani ripeteva come un mantra: "noi organizziamo il nostro campo e loro quello dei moderati". Un piglio decisionista e privo di sintesi che evidentemente non ha pagato alle urne. Anche nella prassi del partito Bersani ha privilegiato in ruoli chiave uomini "di sinistra". Stumpo (organizzazione), Orfini (cultura), Orlando (giustizia), Fassina (economia), Speranza (capogruppo deputati): tutte persone cresciute a pane e sinistra giovanile, organizzazione oggi soppiantata dai Giovani Democratici che a tratti vivono con fatica il percorso verso la reale e necessaria sintesi culturale democratica. A ciò si è accompagnato il grande merito di Bersani: il radicamento dei circoli e delle Federazioni del PD. Alla fine il PD oggi c'è, con una sua organizzazione autonoma dai partiti fondatori. A Bersani ciò va riconosciuto. Ha creato un campo contendibile!


Se questi sono i fatti, oggi il partito vive una crisi profonda che a mio avviso è salutare.
Perché è chiaro che ad essere sconfitta alle elezioni non è stata la figura di Bersani ma una impostazione di partito che si è stratificata in questi 5 anni e mezzo.
Se quest’analisi è condivisibile, sono utili pertanto alcune considerazioni.
1) Il Pd deve darsi un missione storica: non è solo l'unione di riformismi giustapposti ma un partito che cerca di interpretare una sintesi politica ormai già matura nell'elettorato.
2) La coerenza democratica è la chiave per tale interpretazione. Vuol dire che questa comunità politica deve comprendere il valore "nobile" della partecipazione dei cittadini alla polis. Con la democrazia non si scherza, soprattutto oggi non si gioca. Dire che si è contro le correnti, vuol dire valorizzare il dibattito, il confronto serio ed appassionato. Vuol dire nella pratica del partito valorizzare gli organi attraverso cui si esprime la vita democratica interna alla comunità politica.
3) La direzione di sinistra non ha pagato in termini elettorali. Il Pd non è il restyling del PCI-PDS-DS. Ciò non significa che il PD debba automaticamente scegliere vie centriste. Deve aspirare ad essere altro, facendo sintesi tra cattolicesimo democratico e sociale e la tradizione riformista di sinistra. Il PD deve acquistare quella centralità nel sistema politico che imponga l’alleanza ad altri soggetti politici. Ciò non significa egemonizzare il quadro politico ma dirigerlo. Lo potrà fare con posizioni nettamente riformiste in tutti i campi.
4) In effetti il PD non può retrocedere a partito d'opinione, né può continuare ad essere un partito di oligarchie. Né può restare una federazione di potentati. Deve ri-generarsi come partito della “gente”. Deve riprendere il dialogo con la gente cercando di interpretarla prima che dirigerla. Forse il PD fino ad oggi ha peccato proprio in questo: ha invertito quel processo per cui il soggetto politico prima interpreta la società, poi la racconta e le da risposte che sono condivise. Il Pd ha abdicato all’interpretazione, allontanandosi dal suo corpo elettorale naturale (ceti meno abbienti, operai, precari etc…) che gli preferisce da anni  Berlusconi e la Lega e oggi anche M5S.
5) Per fare ciò il PD dovrebbe ripensare il rapporto tra comunità politica e persona valorizzando l’autonomia di coscienza. Ciò non significa che ognuno si regola come gli pare bensì porre limiti espliciti all’autonomia. Ad esempio il voto di fiducia non è un caso di coscienza, votare una legge che permettesse tout court il matrimonio agli omosessuali oppure  l’aborto oltre le 15 settimana lo è.

Spero di esser stato utile ai più, anche se queste sono solo una parte delle valutazioni che mi venivano in mente guardando questa situazione politica contingente. Anche perchè penso che questa non sia una crisi da dissoluzione ma una crisi da crescita democratica.