martedì 28 agosto 2012

Dinosauri e ragazzotti

Mi rifiuto di pensare che la questione del ricambio generazionale nella federazione beneventana del Partito Democratico, al di là di sterili dispute nominalistiche sull’appeal di questa o quella personalità politica sannita, possa o debba ridursi, come riportato dal quotidiano il Sannio nel numero del 25 agosto scorso ( http://www.ilsannioquotidiano.it/politica/item/10306-pd-trenta-quarantenni-alla-riscossa.html ), ad uno scontro tra dinosauri (o anche grandi vecchi, zietti ed eminenze grige) da un lato e ragazzotti (o anche panchinari) dall'altro.
Non mi sembra neanche che il tutto possa giocarsi su concetti come “spallata” o “forza” e “voracità” politica di una giovane generazione fatta di ragazzotti e panchinari.
Sarebbe in effetti un ragionamento troppo semplicistico e poco rispettoso di una partito, come il PD sannita, che, come nessun altro, sta nel tempo strutturandosi capillarmente sul nostro territorio.
Anche per intavolare una proficua discussione su questa importante questione che interessa un po tutti i soggetti politici attuali, mi sembra utile ricordare le parole di Ciriaco De Mita pronunciate in occasione del congresso di scioglimento della Margherita nel 2007: guai a chi immagina di crescere aspettando donazioni...nel rapporto giovani e vecchie generazioni, il ricambio non è dato dalla sostituzione ma dalla capacità delle generazioni precedenti di aiutare i giovani a conquistarsi ruolo di guida e capacità di interpretazione”
Certo, alla nitida consapevolezza del discorso fatto allora non rende giustizia il rancoroso disimpegno del  leader irpino dal nostro progetto politico, testimoniato dalle polemiche “intelligenti” dello scorso maggio. Ciò, tuttavia, non toglie forza a quelle parole spese proprio per il nascente PD, pur essendo necessaria qualche doverosa precisazione, al fine di non confondere quelle parole con una apodittica ipoteca dei vecchi sui giovani.
Infatti oggi, alla luce di quelle parole di allora, una domanda utile da porsi potrebbe essere: sono le vecchie generazioni in grado di “aiutare i giovani a conquistarsi ruolo di guida e capacità di interpretazione”? Cosa vuol dire conquistare un ruolo di guida in politica? Cosa è la capacità di interpretazione in politica?
Provo ad abbozzare qualche risposta, nella speranza di offrire un contributo alla possibile elaborazione di un dibattito.
“Capacità di interpretare” in politica potrebbe voler dire saper leggere, emancipando il proprio impegno politico dalle vicende politico-elettorali che passano,  la realtà culturale e sociale del nostro tempo, raccontandola in maniera semplice e convincente all’elettorato che, sentendosi a sua volta “letto ed interpretato”, esprime il proprio consenso.
“Ruolo di guida” potrebbe voler dire, dopo questa attenta opera ermeneutica, saper trovare risposte convincenti in un dialogo proficuo con tutte le parti del processo politico. Con una importante postilla: chi guida non è colui che prende semplicemente le decisioni, bensì colui che, conscio del limite che qualsiasi potere incontra nella impossibilità di coartare le altrui coscienze, concorre con altri a determinare,  dirigendolo, gli esiti del processo politico. In definitiva guidare un processo politico non è semplicemente imporsi, sia pur responsabilmente, con la forza di un numero dato dal consenso; piuttosto è saper interpretare e guidare un processo, esprimendo un pensiero che raccoglie consenso. Questa è la reale “forza” politica di una leadership politica collettiva che porta ad una ri-generazione della classe politica che non sia mera “sostituzione”, né tanto meno (aggiungo) semplice “addizione”. Sia vecchie che nuove generazioni dovrebbero essere all'altezza di questa sfida, al di là dell'età.
L’inversione di tale processo (dall’elaborazione di un pensiero politicamente spendibile alla raccolta del consenso elettorale) in senso meramente decisionista (prima il consenso e poi l’elaborazione), è stato il segno distintivo dell’agire politico mediatizzato di gran parte delle precedenti generazioni politiche che sono state protagoniste della scena pubblica dal 1992 in poi. Ciò ha determinato in questi anni la necessità di un ri-generazione della classe politica in tutti i partiti, a cominciare dal PD, ed una diffusa stanchezza dell’elettorato sempre più insofferente.
Provo allora a rispondere alla prima domanda sulla capacità delle precedenti generazioni di aiutare i giovani. La mia risposta è, per ora: sì, i vecchi possono ancora riuscire ad aiutare i giovani, a patto di dimostrare il saper essere sobri nella gestione del potere ed il saper capire il cambiamento di questi anni.
            “Sobrio” in politica, secondo una bella espressione di don Tonino Bello, è colui che non si ubriaca del potere acquisito, ma conserva una esatta coscienza del suo limite.
“Capire il cambiamento” vuol dire oggi comprendere la svolta epocale di questa complessa società del 2.0 che, da un lato richiede saperi e impegni specializzati (anche e soprattutto) in politica, dall’altro propone forme diffuse di partecipazione politica diretta che mettono in crisi il tradizionale concetto di rappresentanza e di organizzazione politica, richiedendo necessari e concreti adattamenti dei processi decisionali e di partecipazione nei partiti strutturati.
            La composizione di queste due domande politiche della società 2.0 in una concreta offerta politica ri-generata è l’arduo compito che attende vecchie e nuove generazioni, nel PD, ma anche in altri partiti. Se le vecchie e nuove generazioni non saranno all’altezza del compito assegnatogli dalla storia, sarà la storia stessa a sostituirle perché avranno dimostrato la propria inadeguatezza, come avvenne ad esempio nello storico passaggio dai partiti dei notabili a quelli di massa.
L’auspicio è che coloro che si apprestano oggi a sostituirsi e/o aggiungersi alla vecchia generazione, oppure coloro che nella generazione precedente assumeranno fino in fondo l’affascinante compito maieutico di aiutare i giovani, si dimostrino nel tempo futuro all’altezza delle sfide lanciate dal cambiamento di questi anni e del compito di ri-generare la classe politica, nella consapevolezza che, come ricordava Weber di fronte alle epocali sfide del 1919, in politica “non importa l’età quanto piuttosto la capacità di leggere senza pregiudizi le realtà della vita, la capacità di sopportarle ed esserne interiormente all’altezza.”

giovedì 23 agosto 2012

Lo storico abbaglio


Quest'articolo di Massimo Franco sul Corsera: "I cattolici e l'unità (impossibile) da recuperare" (http://www.corriere.it/opinioni/12_agosto_23/franco-cattolici-unita-recuperare_f084be0e-ecf7-11e1-89a9-06b6db5cd36c.shtml) mi ha sollecitato qualche generale riflessione sullo "storico abbaglio" citato dal giornalista.


Personalmente quelle parentesi nel titolo non le avrei messe!
Nè tanto meno mi scandalizzo di fronte alla presa d'atto di tale impossibile unità politica dei cattolici, anche perché l'unità spirituale a cui siamo chiamati come comunità credente è ben più profonda di quel livello semplicemente culturale, sociale e politico al quale si fa riferimento. D'altronde il richiamo di Gaudium et Spes n° 43 mi è sempre sembrato importante: "nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della Chiesa."

Ritengo tuttavia eccessivo parlare di rissa tra "spezzoni del mondo cattolico", visto che in fondo si è trattato di un editoriale, quello dei paolini, che non ha trovato la esplicita adesione di altre associazioni o movimenti cattolici. D'altra parte le reazioni stizzite di qualche singolo ciellino (Amicone, Formigoni ecc...) per certo non esprimono il sentire ufficiale del movimento di Giussani.

Ciò che invece mi interessa cogliere dall'ottimo articolo del dott. Franco, è il riferimento ad una "crisi d'identità culturale" non ancora superata dopo la guerra fredda e ad un"involontario abbaglio storico" nell'immaginare un mondo cattolico unito o destinato a ricompattarsi. A mio avviso questo discorso  va approfondito con la dovuta attenzione, specie in rapporto con la recezione del Concilio Vaticano II nel dibattito culturale all'interno della Chiesa italiana e soprattutto in relazione al modo di intendere ed interpretare il rapporto dei cattolici con il Potere ed il suo Limite.

Da quel che ho potuto apprendere negli anni, visto che a 10 anni mi interessavo d'altro, sembra che  il Convegno di Loreto (1985) fu il vero  spartiacque  italiano nella recezione del dettato conciliare, fino ad allora oggetto di aspre polemiche; almeno  a partire dalla lacerazione sulla cd "scelta religiosa" dell'AC di Bachelet e fino alla cristallizzazione in un ampio dibattito tra mediazione e presenza che vide protagonisti intellettuali come Lazzati, Sorge, Giussani.

Sullo sfondo politico c'era una DC ormai incapace, dopo gli anni del boom, di governare una nazione modernizzata. In effetti erano esaurite le grandi spinte ideali del 1948 che avevano reso possibile l'irripetibile esperienza dell'unità politica dei cattolici: un Paese da ricostruire, una repubblica da fondare, una classe dirigente sobria e autorevole da proporre dopo un ventennio che aveva sfasciato il tessuto etico italiano. Iniziava quindi una lenta ed inesorabile degenerazione dello scudocrociato sotto la guida della cd terza generazione (quella di Forlani e De Mita). Il tessuto ecclesiale viveva intanto un crescente distacco dal partito "unico" dei cattolici al quale restava, come "unica" ragione d'essere, l'anticomunismo che era stato carattere, sia pur importante, non essenziale per il suo nascere. Intanto associazioni e movimenti, a loro volta alle prese con la modernità e le spinte innovative conciliari, iniziavano a differenziarsi, staccandosi idealmente dalla balena bianca che non riusciva più ad interpretare le spinte popolari e rimaneva avviluppata nel clientelismo smodato che ne avrebbe consacrato la fine.

In questa cornice critica, a Loreto il papa polacco, con un memorabile discorso, consacrò in Italia una linea ecclesiale che è stata definita "cultura della presenza", impersonata ed interpretata in questi anni  da CL sul fronte dell'associazionismo laico e da Ruini nelle gerarchie, con prassi operative che hanno segnato quella che Sandro Magister ha efficacemente definito come "chiesa extraparlamentare".
Su tali prassi operative mi piacerebbe soffermarmi, visto che ritengo che "l'abbaglio storico", cui si riferisce l'articolo, tanto involontario non sia, trovando giustificazione nella situazione descritta.Infatti in questi anni "extraparlamentari", dopo aver preso coscienza della crisi decritta, la  chiesa italiana è stata guidata sulla scorta di un preciso presupposto e di una concreta linea d'indirizzo.

 Si è detto e scritto che il cattolicesimo in Italia, con la sua rete di associazione e parrocchie, godrebbe di (ampia) popolare diffusione nella società. La Chiesa italiana, anche alla luce della condizione favorevole non goduta in altri paesi occidentali, si è vista investita del grande compito storico di indicare l'esempio a cui tutte le altre chiese nazionali avrebbero dovuto guardare. Pertanto i vescovi hanno chiesto con insistenza ai cattolici italiani di testimoniare coerenza tra fede professata e vissuta, non disdegnando (anzi promuovendo) la collaborazione con i cattolici "non militanti" purchè schierati per le proprie battaglie culturali, al fine di essere rilevanti (Ruini: meglio contestati che irrilevanti!) ed arrivare a guidare infine la società. Più concretamente in politica la CEI ha esortato all'unità i cattolici  ovunque militassero, non più in nome dell'anticomunismo, ma per difendere alcuni valori irrinunciabili e/o non negoziabili che assumono a tratti i connotati di un programma simil-politico, senza aver paura di dettare la cd "linea", come nel caso del referendum del 2005. 

Tale analisi e la linea d’indirizzo adottata, pur se parzialmente giustificabile nel confuso passaggio del 1992/1994, a me pare, sia divenuta nel suo protrarsi senza l'alternativa di una costruzione di lungo periodo, il vero "abbaglio storico" volontario (non involontario!) della Chiesa italiana.

Intanto il presupposto è discutibile. 

Perché l'esistenza di un'ampia rete di associazioni, movimenti e, soprattutto, di parrocchie, dovrebbe essere sinonimo di un cattolicesimo popolare e diffuso? La consonanza su alcune battaglie "culturali", cosa aggiunge o cosa toglie alla diffusione del Vangelo? Il vangelo in effetti interpella le coscienze e l'esistenza di struttura fisiche o di convergenze culturali, non è indice di coscienze strutturate e formate!
Il fine è poi altrettanto opinabile!
Sicuro che i cattolici siano chiamati ad essere rilevanti e a guidare la società? E' una opzione di per sè coerente col vangelo? Non è, semmai, una opzione che necessità di chiarimenti e di un forte senso del Limite del Potere che forse è mancato?!

Il programma simil-politico proposto è infine francamente poco spendibile per organizzare una proposta politica efficace.
Siamo sicuri che le priorità degli italiani siano i famosi valori non negoziabili?! Non è che forse dovremmo semplicemente prendere atto della irriducibilità della Dottrina Sociale della Chiesa ad un partito ed ad programma politico?! Non è che forse dovremmo prender atto dei limiti delle scelte politiche nella formazione delle coscienze? Può il Magistero della Chiesa dettare le priorità di un programma concretamente politico?

D'altra parte la semplicità del ragionamento enunciato, si è accompagnata purtroppo, sicuramente a livello di trasmissione della linea d'indirizzo enunciata tra vertice e base, con una scarsa coscienza effettiva della complessità del cattolicesimo italiano che è legittimamente attraversato da opinioni diverse, le quali non possono ridursi alla semplice questione di rivalità tra sottogruppi, enunciata da Franco.

In effetti troppo spesso, per ovviare alle oggettive difficoltà nell'affrontare tale complessità, si è trasmessa l'impressione di coltivare un efficientismo decisionista, sterile e burocratico, guidato da uno scarso senso del Limite del Potere. 
Troppo spesso si è agito, nelle strutture ecclesiali ma anche nella società, pensando che la  decisione adottata da chi abbia diritto a prenderla, basti "di per se" a renderla attuabile, trascurando il grosso limite che ogni potere (politico, economico, magisteriale...) incontra nella impossibilità di coartare le coscienze. 
Gli esiti finali di questo processo, per il cattolicesimo italiano,  sono sotto gli occhi di tutti: 
-il fallimento tra gli scandali dei leader politici di CL, 
-gli scandali vaticani che hanno mostrato una Chiesa inerme, poco coerente e attraversata da fratture che trovano sfogo nelle indiscrezione di qualche giornalista e non in un dibattito franco, 
- la copertura data al berlusconismo, 
- le lotte per il potere ecclesiale e non, 
- la marginalizzazione dell'associazionismo cattolico nel dibattito pubblico, 
- il senso di inadeguatezza, frustrazione ed inutilità che tanti laici impegnati avvertono riguardo a convegni ed occasioni di dibattito ecclesiale.

Concludendo mi chiedo seriamente se non sia arrivato il momento di un bilancio franco  all'interno del cattolicesimo italiano su questo storico abbaglio, non per tornare ad un dibattito ormai superato (presenza o mediazione?),  ma per trovare nuove strade e nuove ragioni per una presenza "realmente significante" dei cattolici nella società italiana.


Cattolici, tra contrasti e tregue
un’impossibile unità politica

La rissa fra spezzoni del mondo cattolico non deve sorprendere. È il riflesso fedele di una crisi di identità culturale, prima ancora che politica, non ancora superata dopo la fine della Guerra fredda e della Dc, e dopo gli anni dell'alleanza ambigua col berlusconismo. Le parole aspre che si scambiano Famiglia cristiana e Comunione e liberazione sono figlie di ruggini di un passato sempre più corrosivo.
E confermano che il «nuovo protagonismo politico dei cattolici», espressione abusata, continua a manifestarsi con contrasti, incomprensioni, idiosincrasie; quasi mai su parametri di unità.
Ma forse il problema è proprio questo. Continuare a immaginare un mondo unito o comunque destinato a ricompattarsi costituisce un'illusione, anzi una sorta di involontario abbaglio storico. A un mese e mezzo dal primo anniversario del convegno dei «Forum sociali cattolici» a Todi, dove si tentò una riconciliazione interna in vista di un mitico rilancio, quanto accade sottolinea non le dimensioni di un'occasione mancata, ma la vistosità di una missione impossibile. Non è soltanto l'impossibilità di «rifare la Dc» o qualcosa di simile: a meno che non si immagini una «rifondazione cattolica» minoritaria e con un marcato profilo clericale.
Lo stesso governo di Mario Monti, nel quale sono presenti in veste di ministri alcuni dei protagonisti di Todi, non può essere letto come il ritorno sulla scena di quel mondo. Le dinamiche che hanno plasmato la coalizione dei tecnici sono totalmente staccate da logiche di appartenenza religiosa. E lo stesso Monti è l'esempio lampante di un cattolico convinto ma «non militante», scelto come premier per ragioni di competenza economica e di credibilità internazionale: un «cattolico per caso», si potrebbe azzardare, fuori dalle appartenenze miniaturizzate e incattivite che di tanto in tanto riemergono sotto il segno di polemiche datate.
Sono prolungamenti di conflitti del passato, e indizi di una frattura nel modo di intendere il rapporto con il potere. Ogni isolotto dell'arcipelago cattolico lo vive a proprio modo, imputando al vicino la colpa di un approccio diverso. Scorie di quello che una volta era il «supermarket democristiano»: tutto o quasi, e il contrario di tutto, tenuti insieme dalla finzione di un'unità politica necessaria contro il comunismo. Ma da tempo non esiste più questa esigenza. E probabilmente andrebbe archiviata anche la classificazione di «laici» e «cattolici», perché non si capisce come mai l'opinione pubblica dovrebbe considerare distinte e perfino contrapposte queste due identità.
Rimane invece, e riaffiora, la tendenza a una rivalitàche riecheggia quella fra subalternità governativa e «grillismo» anche ecclesiastico nei confronti di Palazzo Chigi. Si tratta di un fenomeno tipico di una fase se non di decadenza, di forte sbandamento, accentuata dalla crisi economica e dalla difficoltà di rapportarsi col governo Monti. Le gerarchie religiose non possono fare molto. Non sono in grado di rimettere insieme un esercito atomizzato in sottogruppi; e sono percorse a loro volta da tensioni non troppo sotterranee. Insomma, l'unità è un fantasma per tutti.
Lo stesso richiamo ai «valori non negoziabili» finora si è rivelato insufficiente a unificare qualcosa che ormai ha punti di riferimento divergenti. Tanto che è improbabile assistere a tregue o riconciliazioni, per quanto invocate o pilotate dall'alto. L'impressione è che l'Italia intera, quella delle associazioni, dei partiti, della protesta, faccia il proprio ingresso nella Terza Repubblica più frantumata che mai; e assillata da un senso di vuoto e di tendenza a guardare indietro a caccia di colpevoli, che i veleni fra cattolici semplicemente rispecchiano: energie sprecate duellando su campi di battaglia artificiosi, mentre le linee di rottura sono altre.




lunedì 20 agosto 2012

Vocazione radicale


Mi ha molto colpito questo passaggio dell'articolo di fondo di Mons. Crociata pubblicato su Avvenire del 15 agosto scorso : " C’è un ricco vissuto ecclesiale, intessuto di impegno caritativo e sociale – fatto di azione pastorale ordinaria e di proposta formativa – che ha bisogno di diventare visione condivisa della vita collettiva e dei suoi beni ideali e valoriali, anche attraverso l’elaborazione di una cultura che interpreti la vita del Paese e concorra a progettarne il futuro. In questo quadro acquista significato e forza di necessità l’esigenza di accompagnare la dedicazione di singoli credenti all’ambito sociale e politico, da assecondare solo nella sua radicale dimensione vocazionale. "
In effetti penso che le parole del segretario generale della CEI dovrebbero interpellare molto seriamente chiunque, ai vari livelli,  nella Chiesa italiana occupi qualche posto di responsabilità.
Cosa significa oggi e concretamente "accompagnare la dedicazione di singoli credenti nell'ambito sociale e politico, da assecondare solo nella sua radicale dimensione vocazionale"?
Scegliere di essere vicino a chi si dedica alla politica come vocazione radicale pare già una scelta di campo netta. Vuol dire, nel generale e scontato attacco alla casta politica di questi giorni,  considerare positivo che vi possano essere persone che dedichino la propria vita alla politica: non però alla politica immaginaria che ci sarà, dopo composizioni e ricomposizioni o altri artifizi politicanti, ma a quella che c'è! 
Come non ricordare la lezione weberiana della politica come beruf (professione/vocazione)!
Si, ma cosa potrebbe voler dire "vocazione radicale" alla politica?
Vocazione è l'intima chiamata interiore al servizio che il Signore fa a ciascuno in tanti campi della vita.
Radicale forse potrebbe voler dire il riferimento ad un impegno senza risparmio di energie scelto  con matura responsabilità.
Qualcuno potrebbe interpretare questa scelta di campo di mons. Crociata come la necessità di scegliere, guidare e promuovere chi è ritenuto, per fedeltà al magistero (e forse agli orientamenti politici del don/mons di turno), più adatto a servire nella politica.
Questa nuova generazione di cattolici in politica, invocata forse eccessivamente, non può nè deve certamente nascere così.
Su questo concordo con Crociata, quando chiarisce che queste scelte devono essere assecondate "solo" nella dimensione vocazionale radicale.
Comunque ammettiamo anche che siffatte vocazioni radicali alla politica esistano, la domanda è: cosa fare?
Il passaggio di Crociata sul punto mi pare illuminante: è significativo e necessario accompagnare i singoli credenti.
Chi ha posti di responsabilità nella Chiesa italiana, ai vari livelli, dovrebbe fare ciò!
Ciascuno per la sua parte in vista del bene comune.
Una grossa responsabilità!
Accompagnare significa farsi prossimo, farsi vicino, farsi compagno di viaggio, cercare la calda amicizia, evitare l'indifferenza, aiutare a maturare, cercare il dialogo e la condivisione con coloro nei quali si scorgano i segni di questa vocazione radicale. Vuol dire per questo essere attennti ai percorsi vocazionali di ciascono, assecondarli, farsene partecipe.
Mi chiedo: se la nuova generazione tanto invocata tarda a venire, non è che forse la stessa Chiesa italiana, e chi in essa a vari livelli ha posti responsabilità sia nel governo e sia nell'accompagnamento spirituale, non è pronta ad assolvere questo gravoso e affascinante compito maieutico?

Risvegliare le coscienze

Le grandi difficoltà dell’ora presente richiedono un sussulto di consapevolezza e di partecipazione che non sia circoscritto al­la pur necessaria dimensione tecnico-politica. In quest’ottica, che riguarda insieme cittadini, istituzioni e società civile, una re­sponsabilità particolare spetta ai cattolici, portatori di una visio­ne e forti di una presenza che possono recare un grande contri­buto al risveglio delle coscienze. Il rapporto tra cattolici e politica è all’ordine del giorno. A farlo tornare di attualità concorre la sfi­da lanciata dal drammatico intreccio tra crisi economica e infini­ta transizione della politica, le cui riforme sembrano non arriva­re mai. Il momento ora richiede uno sforzo convergente da parte di quanti rivestono ruoli di pubblica responsabilità come pure dei singoli cittadini. Non mancano i segnali della volontà di uno straor­dinario impegno collettivo, riconoscibili nella disponibilità di tan­ti a farsi carico dei sacrifici necessari, mentre rimane quasi intat­to dinanzi a noi il compito di coniugare misure congiunturali e pro­getti per il futuro del Paese: la gravità del momento non tagli fret­tolosamente fuori ciò che va appena oltre i quotidiani bollettini economici. 



Sarebbe ingeneroso non riconoscere gli sforzi che governo e isti­tuzioni stanno compiendo; ma sarebbe miope sottostimare la fe­conda operosità disseminata nei territori, spesso priva di risalto nella cronaca e nella rappresentazione mediatica. Tanta parte di questo sforzo, dai vertici istituzionali alla base popolare, ha nome o anche solo sensibilità cattolica. Senza pretesa di esclusiva, i cat­tolici sono parte viva e significativa della coscienza morale del Paese, e in questo momento contribuiscono in maniera determi­nante, sia essa palese o discreta, all’attraversamento di questa fa­se della sua storia. La terapia che essi praticano discende da una diagnosi che mostra necessario rimuovere le cause oltre che alle­viare i sintomi. Bisogna che i provvedimenti adottati abbiano l’ef­ficacia del lungo periodo e possiedano la qualità di interventi strut­turali. Le vere risposte alla crisi sono quelle che inducono a guar­dare lontano, che provano a dare una soluzione ai problemi in u­na visione progettuale, in modo che la crisi rappresenti non solo un problema ma anche un’opportunità. 



La situazione di emergenza non sembra di breve periodo; perciò la tentazione sarebbe adesso la divisione, la fallace risposta della lotta di tutti contro tutti. Dalla crisi non si esce esasperando i con­flitti e lo spirito di contesa, ma praticando rinnovata solidarietà e nuova amicizia civica. L’Italia è stata grande quando, nei momenti difficili, tutti si sono fatti carico e si sono presi cura l’uno dell’al­tro. Questo è tempo di risveglio della consapevolezza che ci lega un destino comune, che solo insieme supereremo le prove che ci attendono e per ciò stesso inizieremo a ricostruire. 



È in questa direzione, e non da ora, che si muove la Chiesa in Ita­lia, innanzitutto con il costante richiamo magisteriale - a partire dalle parole di Benedetto XVI - ai princìpi e ai valori costitutivi del senso autentico della persona, della vita, della società ("l’etica del­la vita e della famiglia - ci ha ricordato in questi giorni il cardina­le Bagnasco - non è la conseguenza ma il fondamento della giu­stizia e della solidarietà sociale"). In tale orizzonte si colloca il di­scernimento della situazione e della evoluzione della collettività attraverso lo strumento delle Settimane sociali e di altre istanze della riflessione cristianamente motivata, come pure la proposta di percorsi formativi promossi dalle chiese locali e dalle aggrega­zioni ecclesiali e di ispirazione cristiana. Tutta la comunità ecclesiale si sente chiamata a far crescere la co­scienza della responsabilità comune nei confronti del Paese. Non abbiamo interessi di parte da difendere, ma bene comune da pro­muovere. E il primo bene comune di cui l’intero Paese ha bisogno consiste in un rinnovato e rafforzato senso civico e dell’interesse generale. Oggi siamo in grado di vedere come la spregiudicata speculazione finanziaria e l’esasperazione dell’individualismo e­tico- culturale di piccoli gruppi minacciano pericolosamente la vi­ta di tutti, perché dilapidano ricchezza collettiva accumulata lun­go decenni a forza di laboriosità e di risparmio, e tutto un patri­monio di tradizioni di valori e di vita buona. Finché non ricono­sceremo che la crisi si annida nei comportamenti individuali e particolaristici, non impareremo che da lì inizia il riscatto che farà vedere la luce ora e negli anni a venire, necessario ancor prima di ogni pur avveduta soluzione tecnica.



P er i cattolici, la comunità ecclesiale nelle sue varie articolazioni è lo spazio in cui intraprendere questa azione di nuova maturazione, innanzitutto sul piano della fede e, grazie ad essa, anche su quello etico e civile. 


L’energico rilancio di iniziativa pastorale è puntualmente attestato nella vita della Chiesa: il Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione, l’Anno della fede con la memoria del Concilio Vaticano II e della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, il cammino della Chiesa in Italia sul tracciato educativo ora sempre più chiaramente orientato all’appuntamento del Convegno ecclesiale nazionale di metà decennio. Una Chiesa vitale e fedele alla sua identità e missione è già fermento di nuova società. 


C’è un ricco vissuto ecclesiale, intessuto di impegno caritativo e sociale – fatto di azione pastorale ordinaria e di proposta formativa – che ha bisogno di diventare visione condivisa della vita collettiva e dei suoi beni ideali e valoriali, anche attraverso l’elaborazione di una cultura che interpreti la vita del Paese e concorra a progettarne il futuro. In questo quadro acquista significato e forza di necessità l’esigenza di accompagnare la dedicazione di singoli credenti all’ambito sociale e politico, da assecondare solo nella sua radicale dimensione vocazionale. 


Non dimentichiamo la presenza e l’impegno di quanti già militano nell’agone politico e operano nelle istituzioni. Ai cattolici impegnati in diversi schieramenti e formazioni è commesso l’onere di testimoniare quella convergenza originaria attorno alla fede e alla sua verità, che sono per tutti i credenti ragione di vita e radice di pensiero e di giudizio sulla realtà. In quella convergenza, andrà saggiata la qualità ecclesiale della loro appartenenza, nonché la conseguente coerenza personale indivisibilmente ideale e pratica.


Mariano Crociata

lunedì 13 agosto 2012

Lettera a Rizzo

Oggi ho inviato questa mail a S. Rizzo per commentare un articolo sulla cancellazzione delle province.


gent.mo dott. Rizzo,
ho letto il suo articolo di oggi 13 agosto 2012 sulle Province (http://www.corriere.it/politica/12_agosto_13/provincie_4f808b0c-e50c-11e1-97d9-de28e70d5d31.shtml) ed in particolare la rappresentazione che lei fa del caso della provincia di Benevento.
Pur comprendendo come l'abolizione delle province sia un suo cavallo di battaglia, visto che da anni sono suo affezionatissimo lettore, tuttavia penso che forse questa battaglia sia del tutto fuori bersaglio, soprattutto per quel che riguarda  la mia provincia.
Le spiego.
La provincia di Benevento nasce storicamente con l'unità d'Italia il 25 ottobre 1860 quando furono istituiti i primi 59 enti provinciali del Regno.
In effetti il Sannio beneventano era terra di briganti. E' la terra di Casalduni e Pontelandolfo, terra di eccidi dei piemontesi.
Perchè si decise di farne una provincia?
Forse in considerazione del territorio, per la maggior parte impervio e montuoso e dei collegamenti difficili.
D'altra parte Benevento ha sempre goduto dello statuto particolare di città papale.
Occorreva perciò  un presidio territoriale, un ufficio governativo che fosse utile al governo di quella porzione di territorio nazionale. Fu creata la provincia con territori facenti capo alle vecchie province borboniche della Capinata, della Terra di Lavoro e del Principato Ultra.
Come lei ben sa, in Italia, l'istituzione delle province non è mai stata affare di popolazione ed estensione territoriale.
Nel tempo tale unificazione amministrativa ha creato una comunità territoriale.
Leggendo il suo articolo ho capito che, forse lei non sa che da tempo nei nostri territori si discute di una unificazione di alcuni comuni delle province limitrofe alla provincia di Benevento. Ad esempio alcuni comuni del matesino e della Valle Telsina (attualmente con Caserta) ed altri della Valle Caudina (attualmente con Avellino). Si sta anche in nuce tentando di creare delle associazoni di comuni che potrebbero in futuro diventare Unioni comunali, come la Citta Telesina e la Città Caudina.
E' un discorso abbastanza ampio che non può essere ridotto all'escamotage o all'arzigogolo amministrativo, da lei dimostrato.
D'altra parte le confermo, vivendoci giornalmente,  che ancora oggi sussistono tutte le ragioni storiche che portarono ad istituire questa provincia.
Veda, la stessa legge di "revisione della spesa" ha escluso dal riordino le province che siano montane al 100%. Ciò fa capire che si è voluto tener conto di un fattore importante per questi tipi di territori: le difficoltà di collegamenti e la necessità di mantenere un presidio territoriale unitario.
Ad oggi la mia provincia è definibile come "montana" almeno per l' 80 % della sua estensione territoriale. Infatti 58 comuni su 78 per una estensione di circa 1700 kmq sono ricompresi nelle "odiate" Comunità montane del Titerno, del Taburno, del Fortore e dell'Irpinia. 
Alcune zone, corrispondenti per estensione al 20 % del territorio, sono abbastanza sviluppate dal punto di vista economico: la valle telesina e caudina, la stessa Benevento. Le restanti (comprese nel Fortore, nel Taburno, nel Titerno, nell'Irpinia) soffrono di una marginalizzazione legata anche ad evidenti difficoltà di collegamento e di infrastrutture.
A me pare oltremodo ingiusto togliere a questi territori un presidio come la provincia la cui  mancanza, nel tempo, potrebbe portare alla scomparsa di tanti servizi amministrativi importanti.
Veda, le province non sono solo centri di spesa ma comunità territoriali alla cui esistenza è legata una serie di numerosi servizi al cittadino.
Per questo le chiedo, al di là delle legittime polemiche con il rappresentante pro tempore dell'ente provinciale, di avere maggior rispetto per una comunità territoriale, come quella di Benevento, che merita grande comprensione.
Cordialmente
Diego Ruggiero (Airola, Bn)

mercoledì 1 agosto 2012

Il pane e la politica


Sarà che ultimamente mi sento molto immerso nella politica per ragioni personali e, forse, vocazionali, però nelle scorse domeniche mi sono imbattuto nella pagina evangelica della “moltiplicazione dei pani” (Gv6, 1-15) che mi ha dato molto da meditare su un argomento: quale spiritualità per un cattolico impegnato in politica? quali modalità dell'impegno? Quali le modalità di una concreta presenza cattolica nella società? Condivido questi pensieri nella speranza di non dire eresie e che possano essere utili a me e a qualche altro.
Gesù in sostanza, nel passo di Giovanni, si trova di fronte alla necessità di rispondere ad un bisogno della folla (della società?): quello del pane, quello del sostentamento.
Rispondere al bisogno dei tanti, organizzando mezzi e risorse disponibili, è anche uno dei compiti principali della politica. Trovare risposte a questi bisogni è organizzare anche una concreta risposta politica. Mi è venuto così molto semplice il parallelo tra passo evangelico e azione politica.
Gesù allora pone ai discepoli l’interrogativo concreto: come rispondere a questo bisogno dei tanti? (dice: Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?). Come a dire: servendoci dei mezzi umani disponibili, come possiamo rispondere a questo bisogno sociale che attende soddisfazione?.
Il Signore si trova davanti a tre risposte: quella di Filippo, quella di Andrea e quella del ragazzo che offre il poco che ha.
Filippo, il sapiente organizzatore, l’esperto, subito è portato a dare la risposta concreta. Analizza il bisogno, trova le risposta ed esamina le risorse e dice: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”. Le risorse non bastano ed il bisogno dei tanti non potrà essere soddisfatto. Tanto vale rinunciare all’azione “politica” di soddisfare il bisogno della folla e dare  risposte differenti al bisogno di pane..
Andrea, più semplice e forse meno esperto, decide di cercare comunque le poche risorse disponibili e porta all’attenzione di Gesù e di tutti un ragazzo dicendo: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?” Nuovamente le risorse non bastano ed il bisogno dei tanti non potrà essere soddisfatto. L’atteggiamento di Andrea pare questo: l’azione politica può essere intrapresa, ma la risposta sarà certamente non soddisfacente sul piano dell’effetto.
Il ragazzo, semplice e silenzioso, mette invece a disposizione il poco di risorse disponibili che ha. “Mettere a disposizione” vuol dire semplicemente non calcolare le conseguenze e l’efficacia dell’azione; vuol dire non far dipendere l’azione dalla sua efficacia secondo umani calcoli. In una parola vuol dire affidarsi all’azione della grazia.
L’atto del ragazzo è una risposta concretamente valutabile sul piano politico?
Forse no, però è una risposta che può dire molto sul piano della spiritualità politica, anche perché il Signore ci da la sua risposta “politica e spirituale”, proprio rispondendo a quest’atto di affidamento, senza calcoli. Vediamo come.
Gesù non lascia fare ai discepoli, né al ragazzo. Egli stesso concretizza la risposta al bisogno. Per prima cosa chiede ai discepoli (non al ragazzo) di intraprendere l’azione per il soddisfacimento del bisogno, dicendo ai discepoli “fateli sedere”.
            Poi però è Lui stesso ad operare (“prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano”) e raggiungere l’effetto di soddisfazione del bisogno di pane della folla.
            L’intento del Maestro pare chiaro: mostrare ai discepoli che l’efficacia dell’azione non dipende tutta dal nostro saper organizzare una risposta collettiva ad un bisogno. Forse il Signore vuol dire: attenzione, nel porre in essere un’azione “politica e spirituale” non mirate ad essere efficienti, ma più semplicemente mirate ad essere affidati e disponibili. Non tutto dipende dal vostro saper organizzare una risposta concreta ed efficace.
            Ed ancora: la pagina evangelica si conclude così, “Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo”. La reazione naturale della folla è quello di eleggere Gesù a propria guida. Gesù cosa fa? Si allontana e va a pregare da solo. Non sposa la logica del mondo. Gesù rifiuta di essere guida della folla, ergo della società. La sua risposta di presenza nella politica è: agire politicamente con piena e semplice disponibilità non per divenire guida della società ma per rispondere ai bisogni della società, al bene comune.
            Spesso invece un certo modo di declinare la presenza dei cattolici in politica e nella società, sembra eccedere nel porre l’attenzione sul ruolo di guida dei cattolici e sulla necessità del rendersi presenti ed efficaci, dimenticando che, come mostra il Maestro, sta nell’affidamento, nella disponibilità disinteressata e nella preghiera la vera radice di un impegno credibile dei cattolici in politica
            Spero che questi pensieri sparsi siano utili a qualcuno. Buon ferragosto