martedì 31 dicembre 2013

Fanno le pulci al Pd, ma dove sono i bilanci di Lega e Pdl

“Fanno le pulci al Pd, ma dove sono i bilanci di Lega e Pdl?”

Diego Ruggiero
Diego Ruggiero
di Diego Ruggiero – Seguo  negli ultimi giorni gli articoli di Maria Teresa Meli SUL CORSERA sullo stato dei conti del Partito Democratico.
Scoprire alcune operazioni “border-line”, come quella di aver assunto come quadri alcuni parlamentari mi ha lasciato stupito.
E’ un affronto vero e proprio per chi, come me ed il mio direttivo, giorno per giorno nei circoli di base del PD tira la cinghia per tenere aperta la sezione, spende gratuitamente ore del suo tempo per “fare politica”, parla con la gente raccogliendone la stanchezza per questa politica ed i suoi costi.
Basta con questa retorica del gazebo! I gazebo per chi vuole ci sono, ma se li deve comprare di tasca propria.
Scoprire che a Roma ci sono uomini di partito che hanno rimborsata qualsiasi spesa facciano, ricevano stipendi da benestanti, hanno reti di sicurezza venendo candidati alle elezioni, trovarseli paracadutati nel territorio, come è successo a noi nella circoscrizione CAMPANIA 2: sono altrettanti scandali.
Difficilmente circoli e federazioni provinciali ricevono il finanziamento pubblico che rimane, come si vede dai bilanci del PD, per le spese nazionali e regionali.
Spesso mi meraviglia la forza con cui tanti noi riescono a tenere aperte le sezioni.
Me ne chiedo la ragione e me ne do una risposta.
Il fatto è che il PD è oggi l’unico partito degno di questo nome in circolazione. Quindi ben venga che il Corriere ci faccia le pulci, anche se siamo l’unico partito col bilancio certificato. Ben venga però un giornalismo che sia equilibrato perchè il distacco tra base e vertici dei partiti è un fenomeno generale e non solo dei Democratici.
Allora mi si permetta una critica all’inchiesta della Meli: come vengono spesi i soldui della Lega? come vengono spesi quelli di Forza Italia? come vengono spesi quelli di SEL? com vengono spesi quelli di Scelta Civica? come li spendoni i grillini? Dove sono i bilanci dei gruppi parlamentari?
Il mio circolo ha deciso di destinare parte dei soldi delle primarie, i famosi 2 euro, ad iniziative umanitarie in Africa. E’ un poco come l’obolo delle vedova della parabola evangelica! Sapete perchè?! Perchè noi ai nostri elettori dobbiamo dar conto ogni giorno. Questa scelta ci è costata fatica perchè faremo ulteriori sacrifici per “fare politica”, ma siamo decisi e convinti della scelta fatta perchè potremo guardare a testa alta i nostri concittadini. Ben venga allora la proposta di Enrico Letta del sistema di finanziamento attraverso il 2xmille. Tuttavia a questo punto sarebbe un gran gesto verso gli italiani che tirano la cinghia che Renzi, il nostro segretario, rinunci da subito al finanziamento e proponga di emendare il decreto legge del governo in tal senso.

martedì 1 ottobre 2013

SEMPLICEMENTE DEMOCRATICO

Un periodo confuso. Questa è l'impressione che ci coglie tutti nell'osservare la vicenda attuale del Partito Democratico.
Il progetto di un "vero partito nuovo" ancorato ad una visione riformista che affonda le proprie radici nell'esperienza dell'Ulivo: questo è il PD che mi ostino ad intravvedere dietro a tanti fallimenti personali, incoerenze politiche, aspettative deluse, piccoli passi in avanti, mediazioni affaticate.
Cuperlo, Renzi, Letta...e per tornare al locale De Luca, De Caro, Abbate, Mortaruolo: molti di noi in questa confusione cercano di aggrapparsi a dei nomi, a delle storie, a delle aree culturali.
Mi chiedo se sia questa la strada: se cioè da questa confusione se ne esca legandosi ad un leader, ad un numero espressione di un consenso, a formule politiche conformiste. Quante volte ho sentito dire: "la politica si fa con i numeri!", "la politica deve dare risposte", “la politica se non la fai la subisci”.
Ah...purtroppo quante volte, troppe volte! Così giustifichiamo un cinismo che ci fa spesso dissociare da noi stessi e per dirla con Sant’Ignazio degli esercizi “dal fine per cui siamo stati creati”.
Devo ammettere un mio limite politico: vivo queste espressioni in questa fase di estrema confusione politica con gran fastidio interiore!
Anche perché mi vado convincendo ogni giorno che i paradigmi stanno cambiando, che c’è un elettorato maturo che non vuole “risposte” che sa che non possiamo più dare, che non si accontenta di essere un “numero” in un assetto di potere, che non vuole essere “arma” di scontro tra fazioni personali.
Eppure ancora sento in giro persone che pesano i leaders dal numero di voti raccolti per cui questo vale cinque, quello otto e quell’altro 10, senza avvedersi di scadere così in quel conformismo che riduce semplicisticamente le persone a numeri, il bene comune a prebende personali, l’alchimia del consenso politico alla corsa per il potere.
Mah…a me questo non basta.
Questo conformismo mi stanca, mi fa ri-accarezzare quel senso di impotenza che mi ha spinto per tanto a starmene fuori dalla politica, a fare di tutt’erba un fascio, beato nel mio recinto di cattolico ecclesialmente impegnato.
Lo dichiaro apertamente: io voglio essere “uno” qui ed ora… non un 10, un 50, un 300,un mille, un ottomila o ventimila. Uno di Airola, nella provincia di Benevento in Campania.
Semplicemente “uno” che esiste.
Uno che tiene conto dell’altro, uno che condivide le proprie idee, che è disposto a cambiarle perché sa di valere molto più delle idee che esprime perché amato da Dio, uno dei tanti al quale il Signore per ora affida una responsabilità oggi e forse domani lo chiamerà ad altro.
Uno né meglio, né peggio di uno come te che mi leggi e ti starai cullando nella certezza che “questo Diego è una brava persona ma non capisce proprio come gira!”.
Uno che cerca e si sforza, con la mente ed il cuore, di pensare, dire e fare coerentemente le cose in cui crede. Uno che pensa che il cuore dell’uomo possa cambiare. Anche il tuo che adesso leggi e mal sopporti quella che ti sembra spocchia narcisa, ma è semplice voglia di incontrarti.
Uno che sbaglia e non ha paura di ammetterlo. Uno che ha ragione e non ha paura di sostenerlo.
Uno che cerca di liberarsi dal conformismo del potere.
No, penso di non schierarmi in queste contese nominalistiche in cui ci attarderemo nei prossimi mesi. Renzi, Cuperlo i segretari nazionali, regionali, provinciali. Anzi, non mi schiero neppure per me stesso, segretario di circolo, e chiederò ai miei iscritti cosa ne pensano e se vogliono continuare con "uno" come me quest'avventura democratica.
Qualcuno mi dirà che sto rifiutando di fare politica e che stare in un partito vuol dire prendere parte. Ebbene si! Rifiuto di operare in "questa" politica che si riduce a nomi e numeri!
Non voglio essere un nome nè un numero e non voglio definirmi con un nome in contese per le quali in questo momento non intravvedo più di semplici nomi e numeri.
Sarò “uno” di voi, uno semplicemente e - alemno spero- coerentemente democratico.

A presto

sabato 28 settembre 2013

L'ABBICCI DELLA DEMOCRAZIA

SI AVVICINA IL CONGRESSO DEL PD E MI FA PIACERE PUBBLICARE A PROFITTO DI TUTTI QUESTO BREVISSIMO SAGGIO DI GUIDO CALOGERO DEL 1944 (CHE MI SONO PRESO LA BRIGA DI SCANNERIZZARE)  CHE MI HA DATO MOLTO DA RIFLETTERE...



L'abbiccì della democrazia
Questo saggio — come ricorda Calogero nella Prefazione dell'edizione del 1968 (in cui occupa le pp. 3-45) — nacque da una serie di brevi note pubblicate, nell'autunno 1944, nel giornale romano della Federazione giovanile del Partito d'Azione, «L'Italia libera». Esse furono poi ristampate, nel 1946, in un volumetto col titolo L'abbiccì della democrazia, presso l'editore Colombo di Roma (collana di saggi brevi «Il filo di Arianna»), rapidamente esaurito.

I. PARLARE E ASCOLTARE
E' stato detto che la democrazia è il sistema di contare le teste invece che di romperle. Vediamo che cosa implica questa definizione dall'aspetto bizzarro.
Anzitutto, per, rompere o per contare le teste ci vuole qualcuno che le rompa o le conti. Ogni atto di questo genere è un atto di una determinata persona. Ecco dunque un primo punto, che è bene ricordare anche se può sembrare inutile il farlo. La democrazia, e in genere la politica, non è una cosa che stia per conto proprio, come una stella o come un pezzo di pane. La democrazia è una maniera di comportarsi, un modo di agire di Caio o di Tizio o di Sempronio rispetto a Sempronio o a Tizio o a Caio o al loro gruppo riunito. Non c'è la democrazia o la non-democrazia, c'è l'uomo che agisce più o meno democraticamente. La domanda «Che cosa è la democrazia?» si risolve perciò in quest'altra domanda: «Che cosa debbo fare per essere un buon democratico?».
«Tu devi — si risponderà — non rompere le teste degli altri, ma contarle». Però, siccome non capita tutti i giorni di rompere le teste degli altri, e nemmeno di essere sul punto di farlo o con la tentazione di farlo, bisognerà capire qual è il senso più generale di questo consiglio, espresso in termini così immaginosi. Ora, se è raro che noi sentiamo proprio il desiderio di eliminare a colpi di bastone il fatto che un'altra persona si opponga con la sua volontà alla nostra volontà, è molto meno raro, invece, che noi ci sentiamo comunque spinti a non tener conto di quella sua volontà, a fare in modo che essa non ostacoli per nulla il raggiungimento dei nostri fini. Istintivamente, noi siamo dei sopraffattori. Istintivamente, noi siamo come i bambini, che devono fare un certo sforzo per capire che non debbono mangiarsi tutta la torta se ci sono altri bambini che ne desiderano un po' anche loro. E tanto più ci allontaniamo dalla barbarie della fanciullezza, tanto più cessiamo di essere piccoli cuccioli di una specie di animali un po' più intelligenti degli altri e diventiamo uomini, uomini civili, quanto più comprendiamo che c'è un'altrui volontà, quanto più cerchiamo di tenerne conto.
Questo è dunque, intànto, l'atteggiamento fondamentale dello spirito democratico: il tener conto degli altri. Per chemotivo io ne tenga conto, è un'altra questione, è una grossa questione di filosofia o di morale o di religione o comunque si voglia dire; e si potrà anche rispondere che la persona 'veramente civile, l'uomo davvero buono e onesto e disinteressato, è quello che non ha bisogno di nessun altro motivo per sentirsi indotto a tener conto della volontà altrui, giacché sente di doverlo fare per se stesso, perché è una cosa che va fatta e basta. In ogni modo, derivi questo mio atteggiamento di considerazione e di rispetto della volontà altrui dal fatto che io lo sento doveroso senz'altro, oppure da quello che lo ritengo dettato da certi ragionamenti teorici o suggerito da ragioni di convenienza pratica o ordinato da precetti e comandamenti religiosi, quel che caratterizza lo spirito democratico è che questo atteggiamento abbia luogo. Al di sotto di questo atteggiamento possono stare le sue varie giustificazioni teoriche: ma la democrazia comincia col suo manifestarsi. L'unità della democrazia è l'unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda, e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze.
•Ma come si tien conto della volontà degli altri? Anzitutto, ascoltandoli. Prima ancora che nella bocca, la democrazia sta nelle orecchie. La vera democrazia non è il paese degli oratori, è il paese degli ascoltatori. Naturalmente, perché qualcuno ascolti, bisogna bene che qualcuno parli: ma certe volte si capisce anche senza che gli altri parlino, e non per nulla si sente fastidio per i chiacchieroni e reverenza per i taciturni attenti. La democrazia è dunque, in primo luogo, colloquio. E qui vediamo subito che gli uomini di scarso senso democratico son già coloro che tendono a sopraffare gli altri nella conversazione, che non stanno a sentire quello che gli altri dicono, che tagliano loro la parola prima che essi abbiano finito di esporre il loro pensiero. Ognuno di noi ha almeno un amico nel Partito Liberale, specialista nella tecnica di conversare parlando complessivamente per uno spazio di tempo almeno quadruplo di quello lasciato al suo interlocutore... Chi si comporta a questo modo, fa nella discussione politica quello che si vergognerebbe di fare in un salotto, dove la buona educazione gli proibirebbe di parlare troppo più degli altri e di interrompere e di pretendere d'avere l'ultima parola.
La realtà è che la democrazia vera consiste tanto nel diritto di parlare, quanto nel dovere di lasciar parlare gli altri. È un dovere tanto più delicato, in quanto molto spesso le persone più riflessive, e quindi più capaci di dir qualcosa di utile, sono anche le più riguardose e le meno disposte a compiere un atto di forza per inserirsi nell'eloquenza dell'interlocutore e strappargli la parola. Così i mediocri verbosi riescono spesso a sopraffare gl'intelligenti timidi.
Ma naturalmente questo non va inteso come una specie di giustificazione per i timidi. Chi è timido deve imparare a non esserlo, non foss'altro per abituare l'interlocutore a moderare la sua invadenza, allo stesso modo che si ha il dovere di far valere i propri diritti per non avvezzar male i prepotenti. E d'altra parte bisogna anche evitare quella che potrebbe dirsi la pigrizia oratoria, o l'astensionismo dell'opinione: cioè l'atteggiamento di chi s'interessa sì alle opinioni altrui ma non fa. nessuno sforzo per pensare con la propria testa e prendere la responsabilità delle sue idee e contribuire con esse al miglioramento delle idee comuni. A certe persone lo spirito democratico ordina di parlare un po' di meno, a certe altre consigliadi parlare un po' di più. C'è una scuola anche in questo, per raggiungere quell'equilibrio del colloquio, quell'armonico contemperamento fra intervento proprio e cordiale attenzione per l'intervento altrui, che è, per così dire, la cellula elementarissima della democrazia.
Ma quando non si è in due a parlare, ma in più? Ecco che il problema si complica: ecco che può intervenire la necessità che Tizio faccia star zitto Caio perché non si arroghi troppa libertà di parola a paragone di Sempronio. È una prima questione di tecnica democratica: la tecnica della discussione.

2. COME SI PRESIEDE UNA DISCUSSIONE
Se ci si trova in un salotto e si ha voglia soltanto di passare il tempo, o tutt'al più d'intrattenere il proprio interlocutore, non ci si preoccupa del modo in cui la conversazione procede tra gli altri invitati. Se si è la padrona di casa, e si bada soltanto che la serata riesca bene, cioè che non sopravvengano in nessun crocchio di invitati momenti d'imbarazzato silenzio, e la gente non torni a casa annoiata dicendo male degli ospiti, ci si limita a fare quel che fa la contessa Anna Pàvlovna nella prima scena di Guerra e pace, quando, «andando e venendo per il suo salone, si avvicinava a.un gruppo dove si era smesso di parlare, o dove si parlava troppo, e con una parola o uno spostamento rimetteva in moto la macchina regolare della conversazione».
In un salotto, in un ricevimento, non importa quel che si dice: basta che tutti dicano qualche cosa, che il tono sia gaio, che nessuno si arrabbi e soprattutto che nessuno si annoi. La migliore ricetta per un ricevimento è quella di non dar troppo peso a nessun tema. Perché se qualcuno pigliasse troppo sul serio quello che dice, potrebbe accalorarcisi e guastare il tono della conversazione.
Chi invece, pur chiacchierando in un salotto, cerca di trarre frutto dal colloquio ed è francamente desideroso di conoscere l'opinione che, circa l'argomento discusso, ha non solo il suo immediato interlocutore ma anche ogni altro invitato al ricevimento, si sente orribilmente sulle spine tutte le volte che la conversazione si scinde in più centri, e coppie o gruppi di interlocutori si isolano in discussioni separate, come deviando i loro rivoli dalla comune corrente del discorso. La situazione gli riesce intollerabile, e il meno che gli capiti è quello di fare strenui sforzi per cercare di seguire due o tre conversazioni a un tempo, col risultato di non capirne nessuna e di apparire scortesemente distratto al suo interlocutore più prossimo. Così, alla fine, egli si riduce a pregare tutti di tornare a una discussione comune, in modo che non gli sfugga l'opinione di nessuno. Lì per lì può anche sembrare che egli sia un prepotente e un invadente, il quale voglia entrare nell'animo di tutti: mentre non è che un assetato delle altrui verità.
La realtà è che è morto in lui, con questo, il conversatore da salotto o il direttore di conversazioni da salotto, ed è nato il presidente di assemblea. Il quale, per grande che sia la sala, piglia tutte le sedie e le poltrone dai vari angoli, e le dispone, in barba all'eleganza e al maggiordomo, in un cerchio unico.
Perché un'assemblea non è altro che una conversazione organizzata, così come le conversazioni da salotto sono spesso assemblee disorganizzate. È una conversazione che si svolge, volta per volta, su un dato argomento, sul quale deve concentrarsi l'attenzione di tutti i presenti, senza che sia lecito straniarsi dalla •discussione e isolarsi dalla comunità in colloqui particolari. È una conversazione a cui si deve partecipare con un determinato ordine, affinché sia possibile ad ognuno di esporre la propria opinione, nei limiti di tempo compatibili col diritto di ogni altro ad esporre analogamente la propria.
Ma per questo è necessario che qualcuno diriga la discussione. È necessario che ci sia qualcuno il quale abbia autorità sufficiente per togliere la parola a chiunque si arroghi un diritto di intervento nel dibattito, non equilibrato rispetto alle possibilità d'intervento di tutti gli altri interlocutori. E per fissare nel modo più rigoroso questa regola, si stabilisce addirittura che nessuno abbia il diritto di parlare se non gliel'abbia concesso, volta per volta, chi dirige. In un'assemblea democratica, la situazione-base non è il diritto di parlare, è il dovere di stare zitti. Per poter parlare, bisogna chiedere la parola: e non si può parlare finché il presidente non l'ha data. Abituarsi a questo è uno dei primi e più importanti passi dell'educazione democratica, perché è molto difficile superare la tentazione di interrompere l'oratore o di portargli via addirittura la parola tutte le volte che ai suoi argomenti si senta di poter opporre migliori argomenti propri.
Ciò è tanto vero, che perfino nella discussione condotta secondo le buone regole vige a questo proposito un certo principio d'indulgenza, rappresentato dal «diritto d'interruzione». Ma l'interruzione dev'essere strettamente collegata al tema trattato da chi in quel momento sta parlando, e tale da far pensare che sia opportuno esprimerla subito, perché a enunciarla in seguito si perderebbe più tempo, dovendosi per ciò richiamare alla memoria il punto dell'altrui discorso a cui l'osservazione si riferisce. Anche per questo, poi, l'interruzione è tenuta ad essere brevissima: anzi può dirsi che essa dev'essere tanto concisa, da concludersi prima ancora che il presidente si sia accorto dell'intempestivo intervento e abbia aperto la bocca per reprimerlo. Il suo tempo è, per così dire, il tempo della sorpresa.
D'altra parte, chi dà e toglie la parola, chi reprime gli interventi indebiti nel dibattito, chi tiene la disciplina dell'assemblea vietando ai partecipanti di conversare tra loro o di far rumore e magari alzando per ciò la voce quando non basti il discreto richiamo del suo campanello, dev'essere, per questo stesso, persona a cui tutti i partecipanti all'assemblea riconoscano particolare autorità. Il presidente non è l'esecutore di un compito meccanico: è veramente, per molti aspetti, il direttore della discussione. Quando si è in pochi, esso si individua, per così dire, spontaneamente: presiede la discussione chi ne ha preso l'iniziativa avviandola, chi sa meglio tenerla in pugno evitando che divaghi, chi ha maggiore competenza tecnica nell'argomento. Quando si è in molti, e tali motivi di indicazione spontanea sono meno efficaci, allora il presidente va formalmente designato; e se non viene nominato dall'alto, o non viene estratto a sorte, dev'essere scelto da quelli stessi che è chiamato a presiedere. La prima elezione a cui deve procedere un'assemblea democratica è, così, quella del proprio presidente.
La designazione a presiedere un dibattito implica per ciò stesso tale manifestazione di stima, che non di rado la si adopera anche a scopo onorifico: un'assemblea può pregare un ospite illustre, di volerla presiedere. Il presidente di un'assemblea è infatti il primo garante della democrazia, il custode del-
Ic regole della manifestazione primaria del giuoco democratico. Ma quali sono queste regole?

3. LE REGOLE DELLA DISCUSSIONE
La norma più generale, alla quale si deve obbedire discutendo, è quella di tener conto del tempo di cui si può disporre per la discussione. S'intende che non sempre c'è un limite di tempo strettamente definito, come esso è, per esempio, quando in un congresso si stabilisca il programma dei dibattiti, e non si possa quindi trattare quel dato argomento al di là di quel certo giorno senza disturbare tutto l'insieme dei lavori. Ma anche quando non c'è questo limite rigido, si sa sempre, più o meno, quanto tempo si può pretendere che duri complessivamente il dibattito. Già il fatto di convenire intorno a un tavolo o in un'aula di assemblea costituisce, per i partecipanti, un certo sforzo, una scomodità che talora può essere grande, e il superare la quale costituisce quindi già un primo atto di servigio verso la democrazia: tanto è vero che è prova di scarso senso democratico l'assenza dalle assemblee alle quali si è tenuti a partecipare, così come l'assenza dalle urne quando si è chiamati alle elezioni. Ma per ciò stesso chi parla in un'assemblea deve tener conto di questo comune spirito di sacrificio, per cui tutti hanno trascurato le proprie funzioni e faccende personali per convenire a quel dibattito, e non debbono essere trattenuti più del tempo strettamente necessario.
Prima regola quindi: parlare solo se si ha veramente qualcosa da dire, cioè qualcosa che possa efficacemente contribuire al dibattito e non soltanto soddisfare l'ambizione dell'oratore desideroso di esservi intervenuto. Seconda regola: contenere il proprio intervento in quei limiti di tempo, per cui si possa presumere che anche gli altri partecipanti al dibattito abbiano la stessa possibilità d'intervento. Terza regola: cercar d'esprimere il proprio punto di vista non solo in forma chiara e concisa, ma anche con quella compiutezza che possa rendere meno necessario e prevedibile un secondo intervento nella discussione. Quarta regola: rinunciare senz'altro a parlare tutte le volte in cui il proprio punto di vista sia stato già adeguatamente espresso da un precedente oratore, o tutt'al più limitarsi a dichiarare il proprio consenso con esso.
L'osservanza di queste regole, e specialmente delle prime tre, presuppone naturalmente non solo la buona volontà di rispettarle, ma anche una certa capacità personale, che è dovere democratico cercare di accrescere con l'esercizio (nei paesi anglosassoni ci sono addirittura delle scuole di public speaking, di «tecnica del parlare in pubblico»). Per osservare la. prima, il chiacchierone deve disciplinare la sua oratoria, così come il timido deve vincere il proprio senso di esitazione. Per osservare la seconda e la terza, occorre, possibilmente, non improvvisare senz'altro, ma predisporre in qualche misura l'argomento e lo schema del proprio sia pur breve discorso. E per questo, mentre un oratore che leggesse senz'altro quel che ha da dire farebbe una strana figura (salvo, s'intende, se si trattasse di documenti), perché dimostrerebbe troppo scarsa sicurezza di sé e darebbe agli intervenuti una sensazione di noia e di atteggiamento preconcetto e non commisurato all'andamento della discussione stessa, è del tutto consueto che prima di parlare si prendano appunti e si elaborino piccolischemi, e il lapis e il blocchetto di fogli sono di prammatica su ogni tavolo di assemblea.
Se in tal modo l'oratore adempie ai propri obblighi di riguardo verso i suoi ascoltatori, questi ultimi, a loro volta, hanno il dovere di starlo a sentire, anche per non dare il brutto spettacolo di parlare più tardi senza averlo capito e magari di. ripetere quello che ha già detto. In questo senso, si può considerare come buona regola democratica quella che il presidente richiami all'ordine non solo chi chiacchiera a bassa voce col vicino mentre altri parla, ma anche chi legge o scrive curvo sulle sue carte. Certo si può obiettare, a questo proposito, che ogni oratore ha il dovere di attirare l'attenzione, e se gli altri non s'interessano al suo discorso la colpa è sua. Ma, a parte il fatto che un oratore non è tenuto ad essere più avvincente di tutti gli articoli e di tutte le notizie di tutti i quotidiani del giorno in cui parla, e che chi si distrae leggendo non è più neppure in grado di accorgersi se il discorso dell'oratore diventa realmente interessante, c'è bene il modo di manifestare discretamente la propria stanchezza a un oratore noioso senza far cose di cui ci si vergognerebbe in qualunque salotto.
Con l'osservanza di queste buone norme sia da parte di chi parla sia da parte di chi ascolta, la discussione può procedere ordinatamente, secondo le più specifiche regole della sua procedura. Se i partecipanti sono pochi, basta. chiedere la parola al presidente, senza formalità: se i partecipanti sono molti, diventa necessaria la «iscrizione a parlare», ché permetta al presidente di prendere nota, per ordine, di coloro che hanno chiesto la parola, e di darla loro nello stesso ordine. Il diritto cli derogare a questo ordine, e di ottenere la parola subito, si ha soltanto in due casi: o che si chieda di parlare «per fatto personale», cioè quando l'ultimo oratore abbia espresso apprezzamenti sull'attività personale del richiedente, e sia quindi opportuna e legittima una sua replica immediata: o che si chieda di parlare «per mozione d'ordine», cioè per fare una proposta concernente l'ordine e l'argomento della discussione, sia esso o meno previsto nel formale «ordine del giorno» dell'assemblea. Si risponde così, nel primo caso, all'esigenza di tutelare il diritto di difesa di ciascuno dei presenti quando l'attesa dell'intervento secondo' l'ordine normale della discussione possa far restare troppo tempo la persona colpita dall'altrui giudizio in una situazione di disagio; e, nel secondo caso, all'opportunità di non perder tempo inutilmente quando la «mozione d'ordine» possa offrire il destro di dare un diverso e più fecondo andamento alla discussione.
Qualora poi, nonostante il buon volere della maggior parte dei presenti e le eventuali esortazioni del presidente, la discussione su un argomento determinato vada troppo per le lunghe, allora si può chiedere la «chiusura». Se essa è deliberata dalla maggioranza dei presenti, hanno ancora il diritto di prendere la parola coloro che si erano in precedenza iscritti a parlare, ma non può più chiederla, su quel determinato argomento, nessun altro, e subito dopo si deve passare alla deliberazione. È anche questo un metodo pratico per evitare, in casi determinati, che la discussione tenda a restare inconcludente.
Queste sono le regole principali della discussione, per quanto concerne il modo di discutere. Ma su che cosa si discute? E come si conclude? Naturalmente, non si può determinare in anticipo l'intero contenuto: ma anche qui ci sono delle regole, a cui la tradizione democratica ha provato utile attenersi.

4. ORDINI DEL GIORNO
Se, specialmente di questi tempi, noi fermassimo sulla strada il primo venuto e gli domandassimo che cosa è un ordine del giorno, molto probabilmente egli, pensando ai giornali e alla radio e a Stalin, ci risponderebbe che un ordine del giorno è un annuncio solenne, con cui un comandante dà alle sue truppe la notizia di una vittoria. Nella vita militare, di fatto, l'ordine del giorno è quello che si affigge tutte le sere in caserma con le disposizioni di servizio per il giorno dopo, e nel quale, all'occorrenza, il comando che lo redige comunica ai reparti dipendenti anche notizie che egli ritiene di comune interesse. Ma gli ordini del giorno, di cui tanto spesso si parla nella vita, democratica, sono di specie diversa da questi, e sono anche di specie diversa tra loro.
Un tipo di ordine del giorno apre la discussione, e un altro tipo di ordine del giorno la chiude. Il primo è quello che contiene gli argomenti su cui dev'essere aperta la discussione. Si comprende facilmente l'importanza di una simile determinazione preliminare. Se infatti l'assemblea ha funzioni deliberative (e anche un'assemblea consultiva deve sempre prendere decisioni), il fatto che taluni argomenti possano essere presentati o sottratti al suo dibattito importa molto. Si tratta quindi di sapere a chi compete la «fissazione dell'ordine del giorno»: e questi può essere la stessa persona che abbia l'autorità di convocare l'assemblea (per esempio, il presidente). In ogni modo, una specie di valvola di sicurezza, a questo proposito, è costituita dall'uso di aggiungere per lo più, dopo tutti gli altri capi iscritti all'ordine del giorno, un capo finale col titolo «Varie ed eventuali». E resta poi fermo il fatto che ognuno ha sempre il diritto di chiedere la parola per proporre (con una di quelle «mozioni d'ordine» di cui già s'è parlato) la modifica o l'ampliamento dell'ordine del giorno, e che l'assemblea è libera di accettare simili proposte, pure essendo meglio in generale che gli argomenti da discutere siano noti a tutti in anticipo.
L'ordine del giorno che chiude (o può chiudere) la discussione ha invece tutt'altro carattere. Si esprime in esso uno degli aspetti più essenziali della stessa natura del dibattito democratico. Questo, infatti, non è una qualunque conversazione, da cui ciascuno possa tornare a casa soddisfatto per aver espresso le opinioni proprie e conosciuto le opinioni altrui. Un dibattito di assemblea deve portare a una conclusione. E questa può consistere o nella designazione di una o più persone a determinate cariche (elezione) o in una deliberazione di altro genere. Nell'un caso e nell'altro, come si dice, si «passa ai voti»: è il momento della decisione, in cui anche chi non è intervenuto nel dibattito deve prendere la sua posizione (e anche l'astenersi è assumere un determinato atteggiamento, perché l'astensione deve avere un motivo plausibile per non essere esitazione, eminentemente antidemocratica, a prendersi una responsabilità). Ma la decisione può aver luogo solo su tesi determinate: così, quando non si tratta di scegliere tra certe persone o di approvare o respingere o modificare un dato provvedimento pratico, ma bensì di prendere risoluzioni più generali, concretantisi in dichiarazioni o suggerimenti, occorre che queste dichiarazioni e questi suggerimenti nascano dalla discussione, come frutti conclusivi dello stesso dibattito, sui quali possa quindi polarizzarsi la decisione. Spetta perciò a coloro che hanno più efficacemente contribuito alla discussione di presentare conclusivamente all'assemblea i testiriassuntivi del loro punto di vista, affinché essa possa, col suo voto, approvarli o respingerli. Questo testo riassuntivo è appunto l'ordine del giorno, che vien così ad equivalere a quello, oggi pure usato, di «mozione».
Risulta da ciò la particolare delicatezza della redazione di un ordine del giorno. Chi lo presenta (e altri possono associarsi nella presentazione, firmandolo con lui) deve fare in modo che risulti chiara la rispondenza del suo testo alle argomentazioni da lui svolte nel dibattito: e per delucidarla ancor meglio, può prendere la parola, come si dice, «in sede di illustrazione dell'ordine del giorno», dopo averlo presentato al presidente e prima che questi lo metta ai voti. D'altra parte, possono esserci ordini del giorno concorrenti e non del tutto antitetici, cosicché s'intravveda la possibilità di un solo ordine del giorno che li concili: e allora l'assemblea nomina, per lo più, una commissione di alcuni membri (tra cui, naturalmente, gli stessi estensori degli ordini del giorno in questione) incaricata di giungere a una redazione unica. Altri può, ancora, proporre un «emendamento», cioè una modificazione, all'ordine del giorno: e se esso non è *accolto dal presentatore di quest'ultimo, vien messo ai voti prima dell'ordine del giorno stesso (restando, s'intende, l'efficacia della sua eventuale approvazione condizionata a quella, posteriore, dell'ordine del giorno nel suo insieme). Infine, non è raro il caso che un ordine del giorno, concernendo più di un argomento, possa essere approvato dall'assemblea in taluni capoversi e non in altri. Allora esso viene «votato per divisione», cioè con votazioni separate per ciascuna delle sue parti.

5. VERBALI E VOTAZIONI
Una semplice conversazione, per lo più, non esige di essere documentata: o la si ricorda, o la si dimentica. Ma una discussione democratica deve lasciar traccia di sé. Saranno state in essa prese decisioni, o votati ordini del giorno, di cui andrà serbato il testo preciso, anche per le conseguenze che altri dovranno o potranno trarne (siano essi incaricati di mettere in atto quelle deliberazioni, o comunque interessati ad assumere rispetto ad esse un certo atteggiamento). E, più in generale, quanto maggiore sarà stata la serietà con la quale si sarà presa parte a una discussione, ed assunta in essa la responsabilità di difendere un certo modo di vedere, tanto più vivo sarà l'interesse- che di tale intervento nel dibattito rimanga il ricordo esatto. Così, la cura della piena documentazione aumenta col crescere dell'importanza della discussione stessa. In una conversazione, nessuno piglia appunti (chi lo facesse, sarebbe anzi guardato con diffidenza, e giudicato indiscreto: lo si accuserebbe di voler registrare ciò che vuol rimanere inedito, e di rendere impegnativa una discussione che potrebbe restare leggera). Di un dibattito democratico di media levatura, si riportano per intero, naturalmente, i testi delle deliberazioni e degli ordini del giorno, oltre ai dati concernenti i nomi o il numero dei presenti e le modalità e i risultati delle votazioni; ma i singoli interventi nel dibattito vengono solo rapidamente riassunti nelle loro tesi conclusive. Di un dibattito di alta importanza, si registra tutto fedelmente: così la Camera dei deputati ha i suoi stenografi, e anche a sedute di commissioni ristrette, ma investite di alta. autorità e responsabilità, può talora assistere uno stenografo di fiducia, che renda più facile e integrale l'opera del segretario.
Ogni dibattito democratico presuppone infatti non solo un presidente che lo diriga, ma anche un «segretario» che Io registri. E il testo che questi redige è il «verbale». Ogni partecipante alla discussione ha un naturale interesse a che tale documento storico della discussione sia il più possibile rispondente al modo in cui essa di fatto si svolse: ed ha quindi il diritto di difendersi sia dal pericolo che vi siano omesse cose che egli invece desidera vengano attestate, sia da quello che altre cose siano riferite inesattamente. Dal primo pericolo, egli può guardarsi chiedendo esplicitamente durante lo stesso dibattito, quando ciò gli appaia necessario, che una certa circostanza, o dichiarazione, venga «messa a verbale». Dal secondo pericolo, l'assemblea stessa, nel suo complesso, si premunisce con la norma di non iniziare, in ogni seduta, il nuovo dibattito senza prima aver approvato il verbale della seduta precedente (il quale può esser letto senz'altro, o comunicato in precedenza a tutti gli interessati, o anche già controllato preliminarmente da un'apposita commissione per la revisione dei verbali). Ed è buona norma scrivere i verbali in un registro numerato e controfirmato, in modo che tale fedeltà storica dell'autenticità della discussione democratica risulti palese anche nei casi in cui tale formalità non sia richiesta da speciali disposizioni di legge.
Così nel verbale si registra la manifestazione della libertà di parola, la quale ha, volta per volta, il suo atto conclusivo nella votazione. Quest'ultima, s'è già visto, è assai più comprensiva della «elezione»: per eleggere, infatti, bisogna votare, mentre si può votare per deliberare e non per eleggere. E le difficoltà più complesse della, tecnica della votazione derivano, appunto, dalla esigenza di eleggere, cioè di scegliere gli uomini: le vedremo in seguito. Consideriamo qui un momento i caratteri della votazione in generale. Essa può essere palese, o segreta. È segreta, tutte le volte che si ritiene che preoccupazioni personali, di qualunque genere, possano trattenere il votante dal seguire con piena libertà le genuine indicazioni del suo convincimento. La votazione segreta è con ciò, in fondo, una concessione alla viltà, o all'ipocrisia, dell'uomo. Ma siccome non è possibile far sì che da un momento all'altro tutti diventino specchi di coraggio e di sincerità, e siccome imporla, invece, che il controllo democratico possa funzionare con sufficiente efficacia, così un profondo interesse etico-politico impone di salvaguardare il metodo della votazione segreta in tutti i casi in cui esso appaia raccomandabile (le dittature amano molto la sincerità di chi dice sì ad alta voce!). Quando la votazione è palese, e i votanti sono in gran numero, essa, invece che per «appello nominale», può avvenire «per alzata di mano», o «per alzata e seduta». S'intende che il presidente, mettendo ai voti il punto in questione, avverte l'assemblea circa il significato di approvazione o disapprovazione da dare all'uno o all'altro di quei gesti; e per non errare nel computo numerico dei voti favorevoli e sfavorevoli, fa, specialmente nei casi dubbi, la «controprova». Tutto ciò non accade, s'intende, quando dalla discussione sia emersa una sostanziale concordanza di opinioni: quando cioè abbia luogo l'«unanimità», o addirittura un'approvazione per «acclamazione».
In, tutti gli altri casi, prevale l'opinione del maggior numero, anche quando sia in sé più saggia quella della minoranza. Questo è il punto cruciale, l'aspetto più delicato della democrazia. Per qual motivo, i pochi (che possono essere i migliori) debbono sempre aver torto?

6. IL SIGNIFICATO DELLA MAGGIORANZA
Se i pochi sono i più intelligenti, o i più onesti, perché deve prevalere, sulla loro opinione, l'opinione dei molti? E non accade proprio che l'intelligenza, l'assennatezza, l'onestà siano piuttosto patrimonio dei pochi che dei molti? Se da un lato. c'è Socrate e dall'altro il popolo ateniese che gli dà torto e lo condanna,, perché bisogna attenersi alla decisione della folla piuttosto che all'opinione del saggio?
Fin dalle classiche discussioni dei filosofi sulle istituzioni dello stato greco, è questo l'argomento più spesso rivolto contro la democrazia e contro la sua struttura maggioritaria. E se n'è servito largamente anche il fascismo. Uno degli aspetti sotto cui l'antica idea del «governo degli ottimi» si è trasferita, specificata e immiserita nelle polemiche dell'autoritarismo e del paternalismo moderno è infatti, per esempio, quello del «governo dei tecnici». Chi può negare, del resto, che al Ministero dei lavori pubblici, o dell'agricoltura, o della marina, debbono stare coloro che meglio s'intendono di lavori pubblici, di agricoltura, di marina, e che la loro opinione può non cessare d'esser la più degna di venir seguita e tradotta in atto anche se in certi casi si trovi ad essere opposta al parere dei più?
La realtà è che le cose non stanno solo a questo modo. E proprio perché hanno anche una diversa prospettiva, nasce il bisogno del sistema della maggioranza e della democrazia. Se non ci fosse da considerare che la competenza e la sapienza, cioè l'attitudine tecnica a risolvere determinati problemi, allora si potrebbe andare avanti nello stesso modo in cui si va avanti nel campo più specificatamente professionale: con gli esami. Come i medici apprendisti sono a un certo punto autorizzati ad esercitare dai più anziani e autorevoli dei medici già in funzione, così gli uomini politici giovani dovrebbero prima non farsi bocciare dagli uomini politici già arrivati, e poi acquisterebbero il diritto di prendere il loro posto quando essi fossero andati a riposo per limiti di età. C'era un paese dove questo sistema funzionava largamente: era il paese dei mandarini, la vecchia Cina. E c'è una mentalità che è sinceramente favorevole a questo sistema: la mentalità rappresentata da quel generale piemontese, ricordato dal Croce, il quale non si rendeva conto del perché gli italiani fossero tanto angosciati alla morte di Cavour, e osservava: «Da noi, nell'esercito, se muore un generale, basta promuovere il colonnello più anziano, e tutto ritorna a posto».
È evidente, infatti, che se si trattasse soltanto di dare diplomi di abilitazione e di nominare e di promuovere, il meno che ne nascerebbe sarebbe l'immobilità o la semi-immobilità politica. I vecchi non approverebbero se non i giovani che la pensano come loro; e questi ultimi, nel migliore dei casi, sarebbero costretti a mentire per metà della vita, per poter poi fare di testa propria nella seconda metà. Insomma, la vecchia Cina. Una simile situazione, d'altronde, presuppone un'estrema ignoranza e inerzia e condiscendenza da parte della gran maggioranza del popolo, giacché basta che quest'ultimo non sia proprio nella condizione di assoluta impossibilità di controllo e di giudizio in cui si trovavano i vecchi contadini cinesi (e in cui si trovano ancora moltissimi contadini analfabeti del nostro Mezzogiorno, anche se le lettere dell'alfabeto italiano sono molto meno di quelle dell'alfabeto cinese), perché opponga una certa sua opinione all'opinione dei competenti, e per esempio nonvoglia saperne del medico patentato quando si sia convinto che ciò nonostante è un asino. Si pensi dunque a quello che succede quando non si tratti più di medici o di ingegneri o di avvocati, che sono molti e tra cui quindi si può liberamente scegliere, integrando il giudizio dei competenti con la preferenza propria, ma bensì del capo di uno stato o di un comune, che è una persona sola e che quando è investita della sua carica esercita la sua autorità su tutti, o dell'approvazione di una norma di legge, che quando è stata sancita costringe egualmente la volontà di tutti, e non permette più di dire: «Questa legge non mi piace; scelgo quest'altra perché la preferisco».
Ecco dunque che il problema della convivenza politica non è tanto il problema del dominio della saggezza, quanto piuttosto quello dell'accordo dei conviventi nell'accettazione di una regola comune. S'intende bene che sarà meglio se questa regola sarà anche saggia: ma intanto occorre che ci sia una regola, e quindi anche un regolatore o un complesso di regolatori, nella cui accettazione tutti siano d'accordo, perché alt ri menti non c'è società civile, ma solo disordine e «diritto del pugno» . E siccome è difficile che in simile scelta e accettazioiIC siano d'accordo tutti, fino all'ultimo uomo, così è pur preIèribile che le persone le quali, in tale assunzione d'impegno a rispettare una norma o un'autorità, hanno agito in base a un libero convincimento, siano almeno in numero maggiore di jluelle che, essendo di opinione diversa, cioè desiderando una diversa norma o una diversa autorità, sono pur tenute oramai ;icl accettare quella preferita dagli altri. Una società è tanto più ivile, quanto più vasta è la sfera di libertà, cioè di possibili(\ di azione spontanea, che essa può equamente assicurare a i iascuno dei suoi componenti: occorre quindi che almeno il maggior numero possibile di essi senta come manifestazione della propria libertà la stessa scelta delle norme limitative della comune libertà.
Significa questo, d'altronde, che sia senz'altro escluso il problema della scelta più saggia? Evidentemente, no: perché non è saggio soltanto colui che ha le migliori opinioni, ma anche (e più) colui che è insieme capace di convincere gli altri che le sue opinioni sono le migliori; cioè che non solo è capace di ben pensare, ma anche di condurre altrui a ben pensare. La democrazia, costringendo i saggi a uscire di clausura, mette in certo modo la loro stessa saggezza al banco di prova, e la rende più umana e più consapevole della sua continua obbligazione morale.
Sorge bensì l'ulteriore problema: i quarantanove votanti, che hanno dovuto accettare le preferenze dei cinquantuno, non hanno diritto anch'essi a una qualche considerazione? Il principio maggioritario è uno strumento del quale non si può fare a meno: ma non c'è modo di tenere in un certo conto anche la volontà delle minoranze? Una democrazia bene organizzata deve saper rispondere anche a questa domanda.

7. MINORANZE E PROPORZIONALI
L'esigenza di tener conto della volontà della minoranza pone un problema diverso a seconda che si tratti di votare deliberazioni o dichiarazioni o norme, o invece di eleggere persone a determinate cariche..
Nel primo caso, il problema si risolve non tanto con accorgimenti tecnici, quanto con l'intervento dello spirito di con-ciliazione e di comprensione reciproca, nei limiti, s'intende, in cui questo possa aver luogo. Se si tratta di decidere circa la pace o la guerra, è chiaro che non c'è via di mezzo: prevarrà l'opinione della maggioranza, e la minoranza dovrà piegarsi ad accettarla, anzi dovrà sentirla senz'altro come propria, dal momento in cui sarà divenuta opinione della comunità. Ma se sono in contrasto due ordini del giorno, o due disegni di legge, può accadere che attraverso la discussione emerga la possibilità di giungere a una dichiarazione, o a una norma, che contemperi le opposte esigenze; e allora l'unanimità, o almeno una più vasta maggioranza, nasce tanto dalla volontà della maggioranza già delineatasi, di dare una più vasta base alla propria decisione, quanto dalla rinuncia della minoranza a serbare un atteggiamento di opposizione intransigente.
E s'intende che la maggioranza sentirà tanto più viva l'esigenza di accogliere anche l'opinione della minoranza in una soluzione d'intesa, quanto più la decisione avrà peso per la coesione strutturale della democrazia, cioè per lo stesso spirito di unione tra maggioranza e minoranza. Così, in tutte le situazioni in cui la coesione democratica è debole (dieta di Polonia; Società delle Nazioni; stadi iniziali di formazione di ogni società o comitato o partito) vale non il principio della maggioranza ma quello dell'unanimità, ossia il diritto di veto anche da parte di uno solo dei partecipanti. E anche in situazioni di democrazia consolidata, quando si tratti di modificare certi aspetti fondamentali della struttura democratica (per esempio nel caso di proposte di emendamenti alla Costituzione), si richiede, per lo più, non la semplice maggioranza della metà più uno, ma una maggioranza più forte, per esempio quella dei due terzi o dei tre quarti dei votanti.
Nel secondo caso, la questione naturalmente è insolubile qualora la persona da eleggere sia una sola. Il presidente degli Stati Uniti d'America è l'eletto della maggioranza, e la minoranza è del tutto assente dal vertice del potere esecutivo. Ma quando si tratti di eleggere un corpo di rappresentanti, il problema ammette soluzioni, e si tratta solo di sapere se si accolga l'esigenza di risolverlo, e in che modo si preferisca farlo.
Se si respinge l'esigenza (e ciò può accadere quando si desideri l'elezione di un corpo molto compatto, capace di rapide decisioni e disposto a prendere su di sé la totale responsabilità del suo operato di fronte all'opposizione della minoranza), non c'è altro sistema che quello delle liste contrapposte, da votare in blocco come se si trattasse di un nome solo (e quindi con «ballottaggio», cioè con seconda elezione, tra le dualiste più votate, qualora nessuna di quelle proposte alla prima elezione abbia raggiunto la maggioranza assoluta, della metà più uno dei votanti).
Se invece si desidera che la minoranza sia rappresentata (e questo bisogno è molto sentito specie per quel che concerne le assemblee legislative, che debbono essere largamente rappresentative della volontà popolare) la contrapposizione delle liste concorrenti deve aver luogo solo nel senso, che i candidati in esse proposti risultino eletti in proporzione delle preferenze dei votanti. Queste preferenze possono manifestarsi con la libertà di sostituzione di qualunque nome a quelli proposti nelle liste, che quindi vengono a serbare un valore puramente indicativo: e ciò accade, per lo più, in elezioni di corpi rappresentativi di non grande entità. Quando invece, per la maggiore vastità e importanza del rapporto tra rappresentantie rappresentati (come per esempio nelle elezioni dei deputati al parlamento) anche l'indicazione dei candidati abbia una sua disciplina, allora si può avere la più rigorosa «rappresentanza proporzionale», nel senso che di ogni lista' concorrente, presentata da ciascun partito o gruppi di partiti, risulti eletto quel numero di nomi (a partire dal primo, e salvo il computo delle indicazioni «preferenziali») che stia al numero dei nomi eletti delle altre liste come stanno tra loro i numeri dei voti da esse ottenuti.
Contro questo sistema dello «scrutinio di lista», i difensori dell'opposto sistema del «collegio uninominale» fanno bensì valere il fatto, che oltre all'esigenza di un'esatta proporzionalità rappresentativa delle generali tendenze politiche della nazione, c'è anche quella della conoscenza diretta delle situazioni locali, e del più stretto contatto fra eletti ed elettori: e ad essa risponde meglio la divisione del territorio nazionale in tanti «collegi elettorali», da ciascuno dei quali debba risultare eletto un solo deputato (mentre il sacrificio delle minoranze non rappresentate potrà controbilanciarsi e compensarsi nei vari collegi). Come si vede, il problema generale della rappresentanza democratica si complica, qui, con quello delle rappresentanze locali, e quindi del rapporto tra amministrazione centrale e amministrazione regionale, autorità del centro e autorità della provincia. La scelta o il contemperamento tra le opposte esigenze è quindi un delicato problema politico, che va risolto caso per caso, in ogni concreta situazione storica.

8. LA QUESTIONE DI FIDUCIA
Qualunque autorità che, eletta da un insieme di individui, sia perciò chiamata a interpretarne il volere nella sua attività di direzione o di governo, deve goderne, come si suol dire, la fiducia. Nessuno, infatti, può essere legato a tal punto dal mandato ricevuto dai suoi elettori, da potersi considerare co" me una sorta di esecutore meccanico dei loro ordini. Le situazioni che si debbono fronteggiare sono sempre nuove, e guai a quei dirigenti che innanzi ad ogni novità dovessero tornare a chiedere il parere di coloro che li hanno eletti al posto di comando. Per questo i cosiddetti «mandati imperativi» sono rari, e possono aver senso, per esempio, per i delegati a un congresso, e in ordine a certi problemi già ben noti e discussi dai mandanti: non mai per un'autorità che debba esercitare una funzione direttiva di una certa durata. Diffidenza verso l'autorità significa, invero, autorità debole, autorità di scarsa durata: è il tipo di autorità verso cui tende la psicologia dell'anarchismo, secondo cui tutte le cariche dovrebbero essere revocabili ad nutum, al solo cenno di coloro che le hanno assegnate.
In questo senso, ogni stabile autorità democratica ha bisogno di una certa «fiducia», corrispondente all'ambito di potere autonomo che l'elettore lascia al suo eletto, per tutta quella parte di attività che non può precisamente prevedere e programmare e per la quale si rimette alla sua capacità e lealtà. Il «governo forte», in questo senso, è il governo che «gode fiducia», e le democrazie meglio organizzate sono quelle in cui si dà largo credito all'autorità una volta istituita, in modo da permetterle di fare largamente la sua prova senza la continuaossessione di dover rendere conto giorno per giorno del suo operato. La diffidenza dal basso crea le autorità deboli e discontinue, e queste screditano la democrazia e ne preparano la rovina. La gente meno esperta comincia a sognare il dittatore, che abbia la possibilità di agire senza essere criticato e fermato ad ogni istante.
Ma, proprio affinché per altro verso non nasca e non si sviluppi una psicologia tendenzialmente dittatoriale, è necessario che l'autorità, la quale deve godere della fiducia, non accampi troppo spesso il diritto a questa fiducia. La cosa vale per un governo rispetto al parlamento, così come per qualsiasi comitato direttivo o amministrativo o esecutivo, che si trovi a dover rendere conto, più o meno spesso, del suo operato, o alla assemblea degli associati o a un loro organo rappresentativo. Se in un dibattito il ministro, o il membro del comitato esecutivo, la cui attività o la cui intenzione viene discussa, ha la sensazione che, effettivamente, tale discussione implichi la possibilità di un giudizio negativo su tutto l'insieme della sua azione direttiva, allora egli ha il diritto (e in certi casi addirittura il dovere) di «porre la questione di fiducia» su quel punto, cioè di chiedere che, esprimendo il suo voto sulla questione discussa, l'assemblea sappia che egli interpreterà il suo voto anche come giudizio circa la sua attività in generale, e quindi si riterrà costretto a dimettersi dalla carica, qualora la tesi da lui difesa resti in minoranza.
Se però, tutte le volte che un'assemblea discute qualche punto della politica dei suoi dirigenti, questi pongono la questione di fiducia sul voto che può concludere la discussione, allora è chiaro che la stessa capacità di controllo e di consi- glio, che dev'essere riservata all'assemblea, viene fortemente diminuita, se non addirittura annullata. Un dirigente che, di fronte a qualsiasi ordine del giorno in cui fosse espressa una critica per una soluzione adottata e una raccomandazione di seguire una diversa linea di condotta, ponesse la questione di fiducia, e cioè minacciasse le dimissioni qualora l'ordine del giorno fosse approvato, dimostrerebbe scarsa sensibilità democratica, perché avvierebbe a poco a poco il rapporto tra sé e l'assemblea proprio verso la situazione dittatoriale o predittatoriale, in cui gli individui convocati hanno sempre «fiducia nel capo», e non si discute e non si vota più (se non per acclamazione).
Chi dice troppo spesso: «Abbiate fiducia in me», rischia di arrivare alla fine a dire: «Non disturbate il pilota (già è troppo difficile il governo della nave, perché io debba essere anche frastornato dai vostri contraddittori)». Ora, il «non parlate col manovratore» sta bene scritto sui tram: scritto in una sala di assemblea, sarebbe la prefazione del fascismo. Anche qui, come si vede, la democrazia sta nel mezzo, tra quel difetto di fiducia, che conduce all'anarchia, e quell'eccesso di fiducia, che conduce al dispotismo.
E come si determina questo giusto mezzo? Approssimativamente, cercando sempre di ben distinguere le questioni concrete, rispetto alle quali ci si presenta all'assemblea con sincero intento di riceverne lume e suggerimento, dalle altre questioni più generali, sulle quali non si può transigere perché investono un orientamento personale già definito e nel quale, effettivamente, o l'assemblea ha fiducia o non ha fiducia. Anche il più umile dei dirigenti deve cercare di ben abituarsi e addestrarsi a simile distinzione, perché solo in tal modo si farà un animo veramente democratico. Solo in tal modo riusciràbene a distinguere quando un voto contrario esigerà davvero le sue dimissioni e quando invece esigerà qualcosa che è spesso più disagevole delle dimissioni stesse: l'obbedire alla volontà dell'assemblea, facendola diventare volontà propria.

9 DEMOCRAZIA POLITICA E DEMOCRAZIA SOCIALE
Secondo tutto quel che abbiamo fin qui veduto, lo spirito democratico è costituito in primo luogo dalla volontà di non imporre unilateralmente le proprie opinioni e le proprie preFerenze agli altri, ma anzi di permettere e procurare che questi possano manifestare e far valere le loro, cosicché le norme e i provvedimenti destinati a influire sulla vita comune rispondano effettivamente all'interesse di tutti. Ma fare in modo che gli altri abbiano la possibilità costituzionale di esprimere la loro opinione e di renderla efficace significa anche compiere tutto ciò che è necessario affinché, realmente, questo accada.
Io posso concedere la parola ad altri: ma se questi è muto, la mia licenza non gli donerà la favella. E certo, in questo caso non sarà la legge, o la politica, a dare a quel muto la vera libertà di parola: gliela darà, se mai, il medico, o il maestro specialista nell'educazione dei sordomuti, se ne sarà capace.
esempio giova tuttavia a richiamare alla memoria situazioni Darticolari, in cui pur vediamo come si manifesti la nostra esigenza di offrire uno speciale aiuto a chi incontri ostacoli Per fruire pienamente di quel diritto di parola, che riconosciamo a lui non meno che a noi. Se un individuo è loquace, e tende a soverchiare gli altri nella conversazione, noi non abbiamo ritegno a tagliargli il discorso in bocca; ma se un individuo è balbuziente, e fa uno sforzo visibile per esprimere il suo pensiero, noi cerchiamo di dargli più tempo nel dialogo di quanto pretendiamo per noi, noi stiamo a sentirlo con più amorevole attenzione, noi lo trattiamo, insomma, con speciale riguardo. E certe volte accade che un piccolo difetto di parola possa ridondare a vantaggio di chi lo ha, proprio perché gli interlocutori si trovano di fronte a lui in uno stato di maggiore obbligazione morale, e sono quindi, in conclusione, portati ad ascoltarlo più attentamente, ad interromperlo meno: così come Roosevelt, che per la sua paralisi stava per lo più seduto e non si alzava per salutare, traeva da questa stessa sua inferiorità un certo maggior prestigio di fronte ad ogni interlocutore.
Ora, se, dopo aver considerato gli ostacoli che al pieno esercizio della libertà di parola e d'intervento può opporre la condizione fisica della persona, esaminiamo quelli che possono invece esser provocati dalla condizione economica, troviamo che, in conclusione, non c'è essenziale differenza. Come non sarebbe un vero democratico colui che, fermo al principio della semplice libertà di parola e di voto, non si preoccupasse di conoscere l'opinione e di tener conto della volontà di un muto o di un paralitico per il solo fatto che esso non può parlare o non può muoversi per avvicinarsi all'urna delle votazioni, così non sarebbe un vero democratico colui che, fermo agli stessi principi, non si preoccupasse di sapere se Tizio non ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista solo perché, poniamo, non gli bastava il denaro per prendere il mezzo di trasporto necessario a partecipare a quella data riunione, o se Caio non ha potuto crearsi una maggioranza favorevole al suo punto di vista solo perché non ha avuto adisposizione i mezzi di propaganda di cui si è invece servito il suo competitore.
Ecco dunque il punto cruciale, in cui la pura democrazia politica viene per forza a sfociare in quella che, a contrasto, può e suol dirsi democrazia sociale. Non basta, come si dice, il vuoto diritto giuridico d'intervento: occorre anche la piena possibilità economica dell'intervento. Così formulata, la contrapposizione può bensì essere inopportuna, in quanto può suggerire l'idea che i diritti e le libertà «giuridiche» siano soltanto «vuote», e che la pienezza delle «possibilità» umane si acquisti soltanto spostandosi sul terreno economico. In realtà, una certa «pienezza» è anche in quei diritti, essendo un bene molto concreto (e che all'occorrenza si potrebbe esser disposti a scambiare con grandi. ricchezze, cioè a valutare altamente anche sul terreno economico) quello, per esempio, di non esser costretti a seguire la volontà altrui senza possibilità di protesta, o di esser garantiti dal rischio di andare in prigione in caso di compimento di una simile protesta. Anche la purissima libertà di pensiero e di parola, sancita negli articoli di una costituzione, è una libertà concreta; e guai a chi pensasse che, non avendo essa ancora quella diversa concretezza che appartiene, poniamo, alla libertà di spendere in quanto si ha il denaro in tasca, essa potesse essere abbandonata senza danno qualora non si possedesse anche questa seconda e diversa libertà (o, che è lo stesso, quando già la si possedesse, e si credesse che essa sola è quella che importa).
Ma se bisogna ben ricordarsi che anche le libertà «pure» sono beni che costano, è anche necessario tener sempre presente che, oltre alla sicurezza di non venire impediti dalle autorità nell'esercizio della propria libertà politica, occorre anche la sicurezza di poter esercitare questa stessa libertà senza che ad essa si opponga la schiavitù economica, cioè la miseria. Bisogna dare ad ognuno non solo uguale diritto d'intervento nella determinazione della sorte comune, ma anche eguale possibilità concreta di mettere in atto questo intervento.
E ciò significa, allora, occuparsi non solo dei problemi della libertà politica, ma anche di quelli della eguaglianza sociale. Come è un falso liberale colui che, sapendo che ogni ragazzo è giuridicamente libero di andare a scuola, crede che tutti i ragazzi siano effettivamente liberi di andarci e non si preoccupa di sapere se hanno i quattrini per farlo, così è un falso liberale colui che si preoccupa soltanto del fatto che tutti i cittadini abbiano pari diritto di voto, e non anche del fatto che abbiano pari possibilità di formarsi una cultura, di crearsi delle opinioni, di metterle alla prova della propaganda e del pubblico consenso. Chi, insomma, dice che vuol difendere in primo luogo la libertà politica, perché solo questa potrà poi creare la giustizia sociale, e non scorge che c'è anche una giustizia sociale che è condizione essenziale della stessa libertà politica, non ha il diritto di dire che difende il valore morale della libertà di fronte al valore meramente economico della giustizia, perché in realtà non difende che una libertà dimezzata, cioè una morale a metà.

IO. LIBERALSOCIALISMO
Ma se, per ciò che si è detto, l'eguaglianza sociale è condizione della libertà politica (ossia, più esattamente, se è vero che ogni progresso nella eliminazione dei privilegi economi-ci è condizione necessaria, per quanto non sufficiente, per-il progresso nella eliminazione dei privilegi politici), non bisogna poi credere che soltanto in vista della libertà politica sia (la ricercarsi l'eguaglianza sociale.
C'è infatti l'errore (opposto) di chi crede che la democrazia non debba valere altro che come mezzo per il raggiungimento dell'eguaglianza sociale. Se ci si pone da questo punto di vista, si può rischiare di perdere completamente il senso del valore della democrazia politica. Ammesso, infatti, che una transitoria dittatura fosse egualmente capace di portare a quella eguaglianza sociale, allora potrebb'essere benvenuta anche tale dittatura; anzi si potrebbe, eventualmente, preferirla, qualora si pensasse che a quello scopo essa sapesse condurre meglio che un regime di libertà. È questo, come tutti sanno, l'errore a cui può condurre l'aspetto meno plausibile del marxismo: l'errore di chi, in sostanza, sottolinea troppo il vantaggio della disponibilità dei beni economici, e non s'accorge che una situazione di cose, nella quale ognuno possedesse una giusta quota di ricchezza, e non avesse alcuna (o avesse troppo scarsa) possibilità d'influire sulle decisioni d'interesse comune, potrebbe essere assai più triste e rovinosa di quella nella quale si possedesse questa libertà e non si avesse quell'uguaglianza. Perché in quest'ultimo caso, almeno, sarebbe dato salvarsi da una guerra non voluta dalla maggioranza del popolo e da una dilapidazione del denaro pubblico compiuta dai suoi dirigenti; mentre a tali iatture non ci sarebbe modo di opporsi nell'altro caso, ed esse, sopravvenendo, potrebbero annullare ogni vantaggio dell'uguaglianza economica.
Ma se, in questo senso, è errato considerare la libertà politica come semplice strumento per raggiungere il fine dell'u-guaglianza economica, è altrettanto unilaterale il pensare che l'uguaglianza economica debba valere soltanto come mezzo per integrare una condizione di effettiva libertà politica. Che non si sia pienamente liberi se non quando si disponga anche dei beni economici necessari per mettere concretamente in atto tale libertà, è chiaro: ma che la libertà di disposizione di queste stesse ricchezze non abbia altra giustificazione all'infuori di quella di poter con esse esercitare i diritti politici, è un altro conto. Qui si cadrebbe in una sopravvalutazione della politicità, la quale sarebbe lontana dal vero quanto è lontana la sottovalutazione che ne compie chiunque sogna un mondo perfetto, in cui tutti fruiscano beatamente dell'uguaglianza dei beni e nessuno discuta e combatta politicamente, perché (come si dice) non c'è più differenza di classe e quindi neppure contrapposizione d'interessi. La realtà è che l'uomo afferma se stesso non soltanto discutendo e decidendo e deliberando, ma anche lavorando, costruendo, mangiando, amando, fruendo insomma di tutte quelle possibili forme della vita, che appaiono a lui meritevoli di esser vissute. E quindi per ciascuna di queste egli deve avere la sua libertà; esattamente come deve avere la libertà di contraddire e di dare il voto. Chi impedisce o rende più difficile ad un uomo di mangiare il suo pane o di sposare la donna che ama, pecca contro lo spirito non meno di colui che gli impedisce o gli rende difficile di esprimere le sue opinioni e di farle valere per le decisioni della comunità.
Libertà politica ed uguaglianza sociale sono quindi ad un tempo fine e mezzo, in quanto ogni progresso dell'una favorisce il progresso dell'altra: e per ciò stesso è forse più opportuno non chiamarle né fine né mezzo, ma dire piuttosto che sono aspetti concomitanti e coessenziali di quella democrazia integrale, in cui democrazia politica e democrazia sociale risultano indissolubilmente congiunte come le due facce di una medaglia, la quale non può avere una faccia sola e non può avere più di due facce.
Nella storia del pensiero e dell'attività politica, tutte le concezioni che hanno più altamente sollevato la bandiera della libertà politica hanno per lo più assunto, come nome di battaglia, quello del liberalismo; mentre sotto l'emblema del socialismo si sono sempre più venuti schierando tutti coloro che, pensosi delle ingiustizie sociali e delle disparità della, ricchezza, hanno studiato i modi di assicurare agli uomini la libertà dal bisogno. Ma i liberali hanno poi avvertito sempre più chiaramente che, se volevano essere davvero liberali, dovevano spingersi sempre più anche sul terreno del socialismo; e i socialisti si sono sempre meglio venuti accorgendo che non avrebbero potuto realizzare i loro ideali se non in un'atmosfera di libertà, e attraverso le garanzie politiche della libertà. È un'esperienza storica che si è venuta sempre più compiendo, che si approfondisce ogni giorno, e che porta gli uni e gli altri a sentire la complementarità degli opposti punti di vista. La democrazia vera, la democrazia integrale, non è dunque né soltanto una democrazia liberali né soltanto una democrazia socialista, è piuttosto una democrazia liberalsocialista.
Roma, autunno 1944