giovedì 15 maggio 2008

I ROGHI DI PONTICELLI

Oggi vorrei condividere il dolore per questa descrizione del rogo del campo Rom di Ponticelli fatta da Marco Imarisio sul corsera e il commento alla sistuazione emergenziale fatto da Andrea Olivero, presidente delle ACLI, su Liberazione di ieri.

Penso che la paura e la prospettiva di un sensibile abbattimanto del tenore di vita stia portando molti ad abbandonarsi agli incontrollati umori viscerali del razzismo. Altro che società aperta! Altro che tolleranza! Bisogna alzare la voce alta contro questi gravissimi fatti.

Mi colpisce molto e mi interroga come il giornalista sottolinei il fatto che gli autori di queste proteste sembrino cattolici praticanti (la signora che va in chiesa e sputa sui Rom, il signore con l'immaginetta della Madonna dell'arco). So che astraendo da episodi singoli è bene non generalizzare, ma mi chiedo se siano questi frutti del cd "cattolicesimo di popolo"?


Il reportage Le strade dell’odio
In motorino con le molotov «È la nostra pulizia etnica»
Le bande di incendiari partono dal fortino del boss
NAPOLI — All’inizio è soltanto una colonna di fumo, un segnale che nessuno collega allo sciame di motorini che attraversano sparati l’incrocio di via Argine, due ragazzi in sella a ogni scooter.
L’esplosione arriva qualche attimo dopo, sono le bombole del gas custodite in una baracca avvolta dal fuoco. Le fiamme arrivano fino all’estremità dei pali della luce, il fumo diventa una nuvola nera e tossica, gonfia com’è di rifiuti e plastica che stanno bruciando. Le baracche dei Rom di via Malibrand sono un enorme rogo.
Ponticelli, ore 13.30, la resa dei conti con gli «zingari» è definitiva, senza pietà. Il traffico che impazzisce, il suono delle sirene, i camion dei pompieri, carta annerita che volteggia nell’aria, i poliziotti di guardia all’accampamento che si guardano in faccia, perplessi. Loro stavano davanti, quelli con il motorino sono arrivati da dietro. Allargano le braccia, succede, non è poi così grave, tanto i rom se n’erano andati nella notte. «Meglio se c’erano», si rammarica un signore in tuta nera dell’Adidas. «Quelli dovrebbero ammazzarli tutti». Parla dall’abitacolo della sua Punto, in bella evidenza sul cruscotto c’è un santino, «Santa Maria dell’Arco, proteggimi».
Il primo spettacolo, perché ce ne saranno altri, va in scena davanti alla Villa comunale, l’unica oasi verde, con annessa pista ciclabile, di questo quartiere alla periferia orientale di Napoli, dove l’orizzonte è delimitato dalle vecchie case popolari figlie della speculazione edilizia voluta da Achille Lauro. Un uomo brizzolato con un giubbotto di jeans sulle spalle è il più entusiasta. «Chi fatica onestamente può anche restare, ma per gli altri bisogna prendere precauzioni, anche con il fuoco». Il fuoco purifica, bonifica il terreno «da queste merde che non si lavano mai», aggiunge un ragazzo con occhiali a specchio, capelli impomatati, maglietta alla moda con il cuore disegnato sopra, quella prodotta da Vieri e Maldini. Siccome non c’è democrazia e lo Stato non ci protegge, dice, «la pulizia etnica si fa necessaria» e chissà se capisce davvero il significato di quella frase.
Quando si fanno avanti le televisioni, la realtà diventa recita, si imbellisce. Il donnone con la sporta della spesa che un attimo prima batteva le mani e inveiva contro i pompieri — «lasciateli bruciare, altrimenti tornano»—assume di colpo la faccia contrita, Madonna mia che disastro, poveracci, meno male che là dentro non ci stanno le creature. Il ragazzo con gli occhialoni a specchio diventa saggio all’improvviso: «Giusto cacciarli, ma non così». La telecamera si spegne, lui scoppia a ridere. Sotto a un albero dall’altra parte della strada c’è un gruppo di ragazzi che osserva la scena. Guardano tutto e tutti, nessuno li guarda. Sembrano invisibili. I loro scooter sono parcheggiati sul marciapiede. Il capo è un ragazzo con una maglietta nera aderente, i capelli tagliati cortissimi ai lati della testa. Tutti i presenti sanno chi è, ne conoscono con precisione il grado e la parentela. È uno dei nipoti del cugino del «sindaco » di Ponticelli, quel Ciro Sarno che anche dal carcere continua ad essere il signore del quartiere, capo di un clan di camorra che ha fatto del radicamento nel quartiere la sua forza. Quando vede che la confusione è al massimo, fa un cenno agli altri. Si muovono, accendono i motorini. Dieci minuti dopo, dal campo adiacente, quello di fronte ai palazzoni da dodici piani chiamati le Cinque torri, si alza un’altra nuvola di fumo denso e spesso. L’accampamento è delimitato da una massicciata di rifiuti e copertoni. Sono i primi a bruciare, con il fumo che avvolge le case popolari. La claque si sposta, ad appena 200 metri c’è un nuovo incendio da applaudire. I ragazzi in motorino scompaiono.
La radio di una Volante informa che ci sono fiamme anche nei due campi di via Virginia Woolf, al confine con il comune di Cercola. Sul prato bagnato ci sono un paio di rudimentali bombe incendiarie. I rom sono scappati in fretta. Nelle baracche ci sono ancora le pentole sui fornelli, gli zaini dei bambini. All’ingresso di una di queste abitazioni in lamiera e compensato, tenute insieme da una gomma spugnosa, c’è un quadro con cornice che contiene la foto ingrandita di un bimbo sorridente, vestito da Pulcinella. Florin, carnevale 2008, la festa della scuola elementare di Ponticelli. Alle 14.50 comincia a diluviare, una pioggia battente che spegne tutto. «Era meglio finire il lavoro», dice un anziano mentre si ripara sotto ad una tettoia della Villa comunale.
Mezz’ora più tardi, nel rione De Gasperi si vedono molte delle facce giovani che salivano e scendevano dai motorini. È il fortino dei Sarno, un grumo di case cinte da un vecchio muro, con una sola strada per entrare e una per uscire, con vedette che fingono di leggere il giornale su una panchina e invece sono pagate per segnalare chi va e soprattutto chi viene. Ma questa caccia all’uomo non si spiega solo con la camorra. Sarebbe persino consolante, però non è così.
Sotto al cavalcavia della Napoli-Salerno ci sono gli ultimi tre campi Rom ancora abitati. Dai lastroni di cemento dell’autostrada cadono fiotti di acqua marrone sulle baracche, recintate da una serie di pannelli in legno. Un gruppo di donne e ragazzi che abita nelle case più fatiscenti, quelle in via delle Madonnelle, attraversa la piazza e si fa avanti. «Venite fuori che vi ammazziamo», «Abbiamo pronti i bastoni». La polizia si mette in mezzo, un ispettore cerca di far ragionare queste donne furenti. Siete brava gente, dice, la domenica andate in chiesa, e adesso volete buttare per strada dei poveri bambini? «Sììììì» è il coro di risposta.
Dai pannelli divelti si affaccia una ragazza, il capo coperto da un foulard fradicio di pioggia. Trema, di freddo e paura. Quasi per proteggersi, tiene al seno una bambina di pochi mesi. Saluta una delle donne più esagitate, una signora in carne, che indossa un giubbino di pelo grigio. La conosce. «Stanotte partiamo. Per favore, non fateci del male ». La signora ascolta in silenzio. Poi muove un passo verso la rom, e sputa. Sbaglia bersaglio, colpisce in faccia la bambina. L’ispettore, che stava sulla traiettoria dello sputo, incenerisce con lo sguardo la donna. Tutti gli altri applaudono. «Brava, bravissima». Avanti verso il Medioevo, ognuno con il suo passo.
Marco Imarisio15 maggio 2008

«No al reato di clandestinità. E poi?Verrà l'ora della caccia al povero?»

Andrea Olivero Eidon
Angela Mauro"Famiglia Cristiana" se ne è già lamentata: nel nuovo governo Berlusconi non c'è un nemmeno un ministro cattolico dichiarato, scrive in un editoriale. Ma non sarà certo solo per questo che il mondo cattolico proprio non riesce a mandar giù i primi annunci del nuovo esecutivo in materia di sicurezza e immigrazione. Giorni fa, la Caritas aveva espresso le sue critiche al pacchetto annunciato dal ministro dell'Interno Maroni. E ieri, giornata del vertice a Palazzo Chigi di prima messa a punto delle nuove misure, hanno preso posizione le Acli. «E' inimmaginabile pensare alla clandestinità come reato», dice il presidente delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, Andrea Olivero.Ci spieghi.Sarebbe come dire che è reato il desiderio di vivere in un paese che può garantirti una esistenza migliore. Se andiamo avanti di questo passo, finisce che istituiamo la povertà come reato. Siamo davvero preoccupati. Un conto è la campagna elettorale, periodo in cui tutti forzano i toni. Un conto è legiferare: bisogna essere attenti e saggi. Ci preoccupa che si continui a ragionare in termini di emergenza su temi che invece sono ormai strutturali nella società italiana. Su immigrazione, sicurezza, degrado urbano non si può agire sull'onda dell'emotività, improvvisando.Nel nuovo governo non ci sono ministri cattolici dichiarati. Vi sentite senza interlocutori?Ci confronteremo con chi c'è, la cosa non ci spaventa. Però è noto che un ex ministro dell'Interno come Pisanu è molto critico sul provvedimento Maroni.Non abbiamo problemi ad ammetterlo: con Pisanu abbiamo lavorato bene e ci dispiace che non abbia un ruolo di governo. Ha dimostrato attenzione al tema dell'immigrazione, anche se quel governo Berlusconi non ha mai convocato un tavolo con noi operatori, a differenza del governo Prodi che lo ha fatto, anche se poi non ha prodotto leggi.Maroni vuole convocarvi.Vedremo, mi auguro tenga fede agli annunci. Ad ora, il governo sta dimostrando un'impronta ideologica, nonostante che i suoi esponenti, in campagna elettorale, abbiano annunciato di voler lavorare senza fare ideologia. Penso che nessuno di noi, che lavoriamo con il mondo dell'immigrazione, possa accettare che si parli di immigrazione clandestina come reato. Gli immigrati sono una risorsa per questo paese, piaccia o non piaccia. Almeno due terzi di coloro che ora sono regolari hanno attraversato un periodo di clandestinità. Questo non significa difendere un atteggiamento lassista.Cosa proponete?I reati commessi da cittadini stranieri vanno perseguiti, ma non vanno demonizzati gli stranieri presenti sul territorio, come se fossero gli unici responsabili di una percezione di insicurezza che sembra pervadere i cittadini italiani e gli stessi immigrati. Non servono proclami tesi a criminalizzare un'intera realtà, tipo l'annuncio di utilizzare l'esercito. E' necessario invece favorire l'emersione dei lavoratori immigrati irregolari, situazione favorita da un sistema legislativo limitato e poco lungimirante che rende angusto l'accesso regolare e molto spesso facilita la caduta nell'illegalità anche di chi è riuscito a entrare in Italia nel rispetto delle norme. Ci sono centinaia di migliaia di immigrati che lavorano in Italia e contribuiscono a svolgere compiti che lo Stato non assolve, penso all'assistenza sociale, alle badanti. Non sono loro la vergogna, è l'illegalità che è la vergogna. Va dunque individuato un percorso certo verso la regolarità e verso la cittadinanza: cosa avverrebbe in Italia se anche qui, come in Francia, scioperassero i "senza documento"? Imprese e famiglie sarebbero fortemente penalizzate. Il governo, le amministrazioni locali sarebbero capaci di rispondere alle richieste di welfare che ne deriverebbero? Oggi il welfare di queste famiglie è "fatto in casa" senza il supporto dello Stato, grazie anche a questi lavoratori e lavoratrici. Perchè invece non costruiamo dei tavoli locali sulla sicurezza e l'integrazione? Per costruire una società sicura servono iniziative che incidano sulla qualità della vita delle persone, italiani e stranieri, che si sviluppa nei vari spazi di socializzazione: la scuola, il quartiere, il lavoro, il tempo libero.C'è un'attenzione (ossessione) concentrata sui rom, per loro il governo pensa ad un commissario straordinario. E' esagerato il timore di leggi razziali?Questo lo vedremo. Di certo noto che anche in questo caso l'approccio comprende ancora la parola "straordinario". I rom vivono nel nostro paese da decenni, non è un'emergenza. Bisognerebbe lavorare per la loro integrazione e invece che si fa? Si parla di chiusura dei loro campi, di rispedirli a casa. Ma che vuol dire? Molti di loro sono apolidi, non ce l'hanno un paese d'origine...14/05/2008

mercoledì 14 maggio 2008

Ultimi commenti POLITICHE 2008: Bindi, D'alema, Marini

Pubblico qui per l'ultima volta i commenti alle recenti politiche 2008 e agli assetti interni nel PD.
Si tratta di due interviste a Massimo D'Alema.
Spero che la politica non riduca di nuovo ad uno scontro tra potentati.
L'analisi di D'Alema in alcun punti è convincente.
Quelle di Bindi, De Mita e Franco Marini non riesco a pubblicarle se qualcuno è interessato posso postarle
Alla prossima.

Perchè abbiamo perso

8 Maggio 2008 Intervista di Massimo Bray – Italianieuropei, anticipata da Il Riformista
«Adesso basta col riformismo tecnocratico». Dall’analisi degli errori commessi dalgoverno di centrosinistra nella passata legislatura alla scala di priorità del Pd, passando attraverso i perché della sconfitta elettorale. In una lunga intervista al numero in uscita diItalianieuropei, di cui pubblichiamo ampi stralci, Massimo D’Alema parla di alleanze e della prossima classe dirigente: «Svanita l’illusione del partito leggero,ora serve un’innovazione robusta in grado di farci uscire da una dialettica paralizzante tra “un nuovo” troppo fragile per affermarsi e “un vecchio” troppo pesante per farsi da parte». «Credo che nessuno possa in questo momento mettere in discussione il ruolo di Veltroni come segretario del partito. L’unica cosa che si chiede è una discussione aperta e meno difensiva, a partire da un’analisi vera, che sappia vedere anche i limiti e le insufficienze del progetto così come si è dispiegato fino ad oggi». Alleanze? «Non si può fare l’errore di pensare che se forze della Sinistra non sonorappresentate in Parlamento, esse non esistono più nella società italiana. Ci sono e bisognatenerne conto. Né,evidentemente, possiamo avere interesse a sospingere l’Udc, di nuovo, sotto l’egemonia di Berlusconi».Partiamo da alcune considerazioni sul risultato elettoralee sul modo di leggerlo. Da più parti si è sottolineato il forte cambiamento nelle tendenze dell’elettorato, altri hanno ricordato che solo due anni fa la sinistra non era minoritaria.In realtà il risultato elettorale non segna una svolta improvvisa, né rivela un improvviso cambiamento dell’Italia. Si limita ad accentuare tendenze che si sono manifestate costantemente negli ultimi quindici anni, a partire dalle elezioni del 1994. Anchequando vincemmo nel 1996 si trattò di un successo politico nato dal fatto che la Lega Nord e il Polo delle Libertà erano divisi. Ma nel voto popolare, cioè nella società, anche allora la destra era in maggioranza... Quale tipo di lettura ha provato a dare? E che lettura si diede allora dell’affermazione della Lega?Allora ci furono molte riflessioni. Ricordo la ricerca di Itanes pubblicata dal Mulino, da cui risultava che un terzo del voti leghisti erano voti operai, compresi quelli di lavoratoriiscritti alla Cgil. Commentando questa ricerca, dissi allora che la Lega nasceva da«una costola del movimento operaio». Ciò dette luogo a molte polemiche inutili da parte di chi non capì o, forse, non volle capire...La lettura che si è data del risultato elettorale è che in questi quindici anni, attraverso le televisioni, Berlusconi ha diffuso il suo modo di intendere la società, diseguire i suoi bisogni e i suoi “istinti”, e dopo quindici anni ne ha saputo raccogliere i frutti.Non possiamo ridurre Berlusconi alla televisione.Certamente questo elemento ha avuto un peso e non solo per la forza condizionante che egli ha sull’informazione, il che gli consente di dettare l’agenda politica... C’è di più: attraverso la televisione egli ha concorso, in oltre trent’anni, a formare il senso comune e i modelli di vita degli italiani.E questo sicuramente ha preparato il terreno a quella sintonia con il paese di cui abbiamo parlato... Ci sono,poi, le paure di un paese messo di fronte alle sfide della globalizzazione, al mutamento accelerato dello scenario internazionale e dei rapporti di forza...Tremonti no global. Il colbertismo del prossimo ministro dell’economiaè di gran moda e lo dimostra il numero di copie vendute dal suo libro.Non pensa chetale suggestione scatti in Italia anche a causa di debolezze strutturalie organizzative gravissime?...Anche in questo caso direi che il fenomeno non interessa solo l’Italia... Il problema vero, dalnostro punto di vista, è come mai - non solo ora - abbiamo avuto tanta difficoltà a fronteggiarequesto fenomeno, pur avendolo affrontato politicamente. Abbiamo avuto periodi importanti digoverno, avendo costruito un nostro sistema di alleanze in risposta al berlusconismo. Siamo passati dai progressisti al centrosinistra, abbiamo cercato di creare un rapporto con una parte importante della borghesia italiana, in una prospettiva europeista. Eppure questo sistema di alleanze, che abbiamo costruito con difficoltà, non è mai riuscito a realizzare attorno a sé il consenso di una maggioranza chiara e vasta degli italiani.Quale può essere la lettura di questo ritardo, di questa scarsa sintonia con una parte importante della società?Certamente hanno pesato limiti di analisi e di elaborazione programmatica. Non c’è dubbio,però, che la sconfitta elettorale sia figlia anche di ritardi ed errori politici,per i quali mi sento,anche io, per la mia parte, responsabile. Pur avendo compreso che si dovevaprofondamente rinnovare la nostra proposta politica, facendo perno intorno al progettodel Pd non solo come innovazione del sistema partitico, ma anche come occasione per un radicale ripensamento programmatico e culturale, noi abbiamo tardato.E nel 2006 abbiamo sostanzialmente riproposto il vecchio centrosinistra, in una condizionein cui la frammentazione partitica e la sensazione di fragilità erano enormemente accentuatedalla legge elettorale imposta da Berlusconi.La sinistra è apparsa più volta a conservare... Non vede il rischio che una identità di sinistra di questo tipo sia riassumibile nella capacità di guardare al passato, manon di disegnare scenari futuri?In realtà la nostra proposta era quella già vista e sperimentata nel 1996: un insiemedi partiti e partitini, di personale politico già conosciuto...Il secondo errore è stato quello di pensare di aver vinto le elezioni. In verità il risultato elettorale era un sostanziale pareggio e ciò richiedeva una diversa iniziativapolitica, anziché dare la sensazione di un arroccamento nei confini di una maggioranza risicata e - almeno al Senato – perennemente in bilico,esposta al condizionamentodi partiti minimi o persino di singoli parlamentari. Si doveva puntare ad una comune assunzione di responsabilità con la destra, aprendo una fase, secondouna terminologia gramsciana, di “reciproco assedio”. Non necessariamente formando un governo insieme - cosa che non parve neppure a me realistica in quel momento - ma individuando le forme di corresponsabilità istituzionale e le possibili convergenzeintorno alle grandi riforme di natura istituzionale necessarie per il paese...Non è facile parlare di comune assunzione di responsabilità con questa destra, ma noi dovevamo provarci. Quella doveva essere la nostra politica e così non è stato. Infine, ha pesato negativamente l’esperienza del governo. Non mi riferisco soltanto alla confusione e alle divisioni della maggioranza, che spesso hanno finito per oscurare i risultati dell’azione di governo.Mi riferisco anche al contrasto che si è manifestato subito e in modo drammatico tra la sofferenza sociale del paese, il voto di quegli italiani che non arrivavano alla fine del mese ed erano tornati a rivolgersi alla sinistra,e la priorità, apparsa quasi tecnocratica, che il governo ha attribuito al tema del riassetto dei conti pubblici.Errori di comunicazione, come ha scritto qualcuno, o errori politici?Errori politici e deficit di innovazione. Naturalmente al fondo c’è quel rapporto di forze nellasocietà di cui abbiamo parlato all’inizio. Ma, certamente, sembra difficile riuscire a scalfire le basi di massa della destra con un riformismo tecnocratico che è apparso lontano dalla realtà sociale del paese e figlio di quel minoritarismo illuministico che ha rappresentatoa lungo un limite storico dei riformatori italiani...Si è detto prima, a proposito del Pd, di una casa che ha oggi le mura e deve procedere a costruire il resto...Adesso abbiamo davanti una grande sfida: quella di costruire il Pd. Svanita l’illusione del partito leggero, senza strutture e senza iscritti, c’è il problema di costruire un partito moderno in grado di mettere radici nella società contemporanea...Un grande partito ha il compito di formare e selezionare una classe dirigente la cui qualità non consista esclusivamente nel fatto di essere nuova. Classe dirigente in quanto capacedi rappresentare interessi diffusi e bisogni concreti presenti nella società.Insomma, se dovessi dirlo con uno slogan, abbiamo bisogno di innovazionerobusta, in grado di farci uscire da una dialettica paralizzante tra “un nuovo”troppo fragile per affermarsi e “un vecchio” troppo pesante per farsi da parte...Anche a Roma non ha giovato non invogliare ad andare a votare una parte dell’elettorato che era necessaria per arrivare al 51%,mentre si poteva quasi averel’impressione che se ne festeggiasse l’esclusione dal Parlamento?I leader della Sinistra Arcobaleno sono i responsabili della loro sconfitta elettorale, non certola “cattiveria” del Pd. Ma non si può fare l’errore di pensare che se quelle forze non sono rappresentate in Parlamento, esse non esistono più nella società italiana.Ci sono e bisogna tenerne conto. Il che non vuol dire che noi dobbiamo farci condizionare snaturando la nostra impronta riformista, ma il più grande partito dell’opposizionedeve avere la forza di rappresentare quella maggioranza di cittadini che non ha votatoper la destra e non solo quel 33% che ha votato per noi. In questa mia posizione non c’è contrasto tra l’idea di allargare i confini del Pd e la ricerca di una politicadi alleanze.Così pure penso che il risultato ottenuto dall’Udc in una posizione di autonomiadalla destra non possa essere sottovalutato, né, evidentemente, noi possiamo avere interesse a sospingere l’Udc, di nuovo, sotto l’egemonia di Berlusconi. In ogni caso, faccio notare che all’origine del Pd c’è la consapevolezza che senza un rapporto con la tradizionepopolare e cattolico-democratica non sarebbe stato possibile creare in Italia una forza riformista adeguata. Se avessimo teorizzato allora l’autosufficienza deiprogressisti non avremmo fatto nessun passo in avanti. Dunque,all’origine del Pd c’è stata una scelta di politica di alleanze. Inquesto senso, se i processi vengono visti nel loro sviluppo storico,non ha significato la contrapposizione schematica tra vocazionemaggioritaria e alleanze.Quali sono, in definitiva, le priorità del Pd?Discuteremo nei prossimi giorni del programma di lavorodel Pd.Un programma impegnativo,in cui analisi della società,elaborazione, sfida di un’opposizioneche deve avere una visioneriformatrice e di governo del paesedebbono andare di pari passo.Questa deve essere la priorità:riempire di contenuti il lavorodell’opposizione, trovare il mododi collaborare a fare le riformenecessarie e non rinviabili per l’Italia.Non trovo utile il dibattitosugli aggettivi da dare all’opposizioneo sul grado di disponibilitàal dialogo con la maggioranza.L’opposizione si misura sullescelte concrete. Innanzitutto suquelle del governo.E per quantoriguarda il dialogo con la destra,nessuno più di me lo ha cercatoper fare insieme le riforme costituzionalinecessarie. Nello stessotempo, ho potuto sperimentareche non è facile.Ma questo, naturalmente,non cambia la necessitàdi provarci.Nel contempo,abbiamoun problema di costruzionedel partito, del suo radicamento.Serve uno sforzo di invenzioneorganizzativa. Tutto questo sfidale forze migliori del Pd, non inuno scontro sulla leadership, dicui nessuno avverte il bisogno,ma in una ricerca comune, in unconfronto di idee e proposte.Credo che nessuno possa in questomomento ragionevolmentemettere in discussione il ruolo diVeltroni come segretario del partito.L’unica cosa che si chiede èuna discussione aperta e menodifensiva, a partire da un’analisivera,che sappia vedere anche i limitie le insufficienze del progettocosì come si è dispiegatofino ad oggi. Penso che inun partito moderno istituticome la Fondazione Italianieuropeipossano svolgereun ruolo importante.Non come organo di partito,ma come strumento diricerca, di dialogo con lasocietà e la cultura, di formazionedella classe dirigente.Se penso ai democraticiamericani o ai momentimigliori del Partitosocialista francese, penso -appunto - ad una pluralitàdi club, fondazioni, centridi ricerca e di riflessione. Ilproblema è mettere in retequeste esperienze, evitareche le diverse realtà diventinomonadi o partiti paralleli.Il problema è la fluiditàe la libertà di accesso edi discussione. Ma le fondazioninon sono il partito.Voglio essere chiaro. Civuole un partito con i circoli,gli iscritti, i gruppi dirigenti,le persone che si riuniscono,che discutono. Un partito radicatoche costruisce la sua battagliaquotidiana nel rapporto con icittadini. Questa è la condizioneaffinché abbiano un senso i centridi ricerca. Ciò che nel passato appartenevaal partito con la “p”maiuscola oggi sarà una rete diistituzioni e di organismi che siformeranno in modo più libero eautonomo, e che dovremo cercaredi legare ad un’agenda comune,ad uno spirito di collaborazionee non di contrapposizione.Tutto ciò che cresce sotto l’ombrellodel Pd deve essere vistocome un’opportunità, non comeun pericolo,e bisogna fare in modoche tutte queste esperienzenon siano tra di loro conflittuali,contraddittorie.Viviamo in un’epoca chequalcuno ha definito delle «passionitristi». Non crede che un altrosforzo che il Pd dovrebbecompiere è quello di ricreareuna passione verso la politica daparte dei cittadini, da parte deitanti giovani che preferisconorestarne lontani?Si è scritto delle «passioni tristi» dei giovani d’oggi parlandodi società come le nostre, dominatedalla paura anziché dallasperanza... C’è moltissimo dacambiare, compresi i riferimentisimbolici e ideali. Con il Pd abbiamocominciato a farlo. Bisogna,forse, guardare al nostro patrimonionon tanto come a un insiemedi privilegi da difendere,quanto piuttosto di valori e dirittida affermare.Insomma,un’Europapiù orgogliosa e meno impauritadi fronte al mondo globalepotrebbe riscoprire la passionepolitica.E restituire una missionea una sinistra moderna.

«Sto creando una nuova strutturalegata al Pd ma aperta a tutti»
«Berlusconi? Da innovatore "eversivo" a doroteo»
Massimo D'Alema ROMA — Onorevole D’Alema, come giudica il discorso di Berlusconi?«Sono sempre stato contrario alla logica di un bipolarismo rozzo e di una contrapposizione frontale, per questo non posso che apprezzare la volontà di stabilire un clima di normalità nei rapporti politici e di correttezza nei rapporti istituzionali. In particolare ho colto il riferimento al presidente della Repubblica e al suo ruolo istituzionale. Berlusconi ha fatto un discorso indubbiamente abile... quasi doroteo. Con una sorprendente rivalutazione, nei contenuti e nello stile, della Prima Repubblica. Tuttavia mi è parso un discorso povero di contenuti di carattere programmatico, con un approccio dimesso e poco ambizioso rispetto ai problemi del Paese. Insomma abbiamo avuto un Berlusconi innovatore, che si proponeva quasi in termini "eversivi", e adesso ci troviamo di fronte un Berlusconi in doppio petto, volto a consolidare la sua posizione di egemonia sulla vita politica italiana».
Comunque ha fatto molte aperture di credito all’opposizione. «E’ abbastanza paradossale che non avendo mai voluto riconoscere la legittimità dei governi in carica di centrosinistra, Berlusconi sia stato così generoso nel riconoscere la legittimità del governo ombra. E’ chiaro che è molto più comodo riconoscere la legittimità degli sconfitti, ma, insisto, registriamo il passo in avanti. Certo, bisogna vedere se il Berlusconi che non vuole scontentare nessuno sarà all’altezza della sfida e della drammaticità dei problemi italiani, che mi sembravano assenti dal suo discorso. Se si limiterà alla pura occupazione del potere, seppure con modi più garbati, o se questa nuova visione della dialettica politica sarà produttiva di cambiamenti e innovazioni. Temo che Berlusconi si illuda di poter gestire l’esistente».
Secondo lei il Pd deve aprire al confronto con Berlusconi? «Di fronte al Pd c’è una sfida impegnativa. Non si può reagire in modo nervoso, non cogliendo le novità di impostazione dei rapporti tra maggioranza e opposizione, ma non ci si può nemmeno accontentare solo di questo. La sfida va portata sui contenuti. E richiede riforme coraggiose, in grado di sfidare corporazioni e privilegi: ci vorrebbe una destra liberale e non dorotea. In secondo luogo, la questione italiana più drammatica è l’aumento delle distanze sociali e l’impoverimento di una parte della società. Anche affrontare questo problema richiede scelte coraggiose e determinate. Infine l’altro terreno di sfida riguarda la concezione di Stato moderno. Io dubito che la risposta stia nel federalismo, che rischia—oltre un certo limite — di disarticolare ulteriormente il Paese e moltiplicare i costi e la complessità della democrazia».
Che tipo di opposizione dovrebbe fare il Pd? «Un’opposizione in grado di incalzare il governo sulla base del nostro programma, ma anche e soprattutto capace di darsi un respiro e una prospettiva di medio periodo, perché si tratta di costruire un rapporto più robusto con la società italiana, di elaborare una cultura politica più moderna, in grado di interpretare i cambiamenti del Paese. Si tratta di costruire risposte più convincenti e alternative. In fondo è un discorso non diverso da quello che impegna i riformisti in altri Paesi europei e negli Usa».
Il Pd sembra piuttosto impegnarsi in guerre intestine.«Forse c’è stato un equivoco nei giorni scorsi. Si è data la sensazione che le cose potessero precipitare verso una resa dei conti, che non era interesse di nessuno, che nessuno ricercava e di cui non si capirebbe il senso».
E’ stato lei nei giorni scorsi a fare rilievi... «Ci dovrà pur essere una possibilità di discutere senza che questo debba essere interpretato come contrapposizione, dualismo, guerra. Da parte mia ci sono state semplicemente due preoccupazioni. La prima, che ci fosse una discussione vera, all’altezza di una sconfitta di questa portata. Una sconfitta che si "legge" anche nel discorso di Berlusconi, che ha dato il senso di una fase che si chiude e di un’ambizione di egemonia di lungo periodo. Perciò io ho chiesto una discussione vera e non un’interpretazione in qualche modo riduttiva del risultato, legata semplicemente agli errori del governo. La seconda preoccupazione che ho voluto esprimere è quella di coinvolgere le forze migliori del partito, uscendo da logiche abbastanza spartitorie di mantenimento degli equilibri. Come ha detto giustamente Bersani, abbiamo bisogno di rimescolare le carte. I segnali in questo senso non erano convincenti e io l’ho detto, non per stabilire un dualismo, ma perché lo ritenevo utile e necessario. Quel che è avvenuto dopo nel Pd dimostra che era così: ci sono state delle correzioni di rotta. Infatti nella compagine del governo ombra c’è stato uno sforzo effettivo di rinnovamento e apertura. E anche la discussione politica ha cominciato a prendere un respiro diverso. Credo che rispetto alle ragioni iniziali di diversità di giudizio e anche, se si vuole di polemica, le cose adesso si siano avviate in termini più convincenti».
Berlusconi vi ha invitato al dialogo sulla riforma elettorale. «Bisogna affrontare con prudenza la discussione sulle riforme istituzionali e della legge elettorale. Sono a favore della semplificazione ma trovo sbagliato per il nostro Paese l’introduzione forzosa del biparitismo. Su questo si deve fare una discussione seria, non imprigionata nello schema "o sei per il bipartitismo o sei per la vecchia politica". Una semplificazione del genere, e solo per ragioni di propaganda interna, non servirebbe a nulla. E sulle questioni che toccano la sostanza della democrazia un partito come il nostro deve essere attento e rispettoso del pluralismo ».
Dicono che lei è stato fatto fuori dagli organismi dirigenti. «Veltroni mi ha chiesto che cosa volessi fare e sono stato io a dirgli che non intendevo essere impegnato nel governo ombra né in compiti di direzione operativa del Pd e quindi non so chi abbia messo in giro questa voce».
Se è per questo dicono che anche Marini è stato emarginato. «Non ho idea di che cosa pensi Marini ma un’idea di quel che pensa D’Alema grosso modo ce l’ho. Io non voglio incarichi perché penso di fare altro, di fare cose diverse ma utili. E non è vero che le personalità contano se stanno in un organismo dirigente. Tra l’altro, è giusto che chi ha la responsabilità di guidare il Pd metta alla prova forze nuove e non sempre le stesse persone. Comunque, visto che parliamo sempre di politica nuova, bisogna anche cercare di farla e questo è quel che sto cercando di fare ».
Non è che sta facendo una sua corrente? «No. Io voglio cercare di fare una cosa differente, che consiste nel mettere insieme trasversalmente persone di diversa provenienza, magari anche con diverse opinioni politiche su determinati temi ma che sono interessate a un progetto di ricerca, di formazione e di informazione. Il che è assolutamente il contrario di vecchie logiche di appartenenza o di cordata».
Con lo strumento della Fondazione Italianieuropei? «Sì, anche. Ci sono già e continueranno a esserci dei gruppi di ricerca sui problemi del Paese, perché c’è una grandissima domanda di capire e di partecipare. Abbiamo già una rivista, vogliamo poi creare un’associazione di personalità politiche, del mondo della cultura e della società civile che affianchi il lavoro della fondazione. Vogliamo arricchire il patrimonio — già straordinario — di collegamenti internazionali con i think thank progressisti e riformisti dell’Europa, degli Usa e di altri continenti. Siccome vogliamo fare un lavoro rivolto alle nuove generazioni, intendiamo occuparci anche della formazione. E inoltre stiamo cercando di fare un salto di qualità dal punto di vista informativo: abbiamo avviato una collaborazione con la televisione satellitare Nessuno tv. Insomma, daremo vita a una struttura che sarà un pezzo di politica nuova rispetto ai partiti tradizionali. Naturalmente, questo progetto è legato organicamente alla costruzione del Pd, anche se nelle nostre iniziative vogliamo dialogare con tutti, compresi il governo, la maggioranza e le altre forze di opposizione ».
Lo sa che diranno che si sta facendo il suo partito?«Sarebbe un commento sbagliato da parte di chi pensa che la politica si faccia solo con i partiti e forse non conosce il modo in cui i grandi partiti democratici e riformisti, dagli Usa all’Europa, elaborano le loro politiche e costruiscono il loro rapporto con la società».
Maria Teresa Meli

lunedì 5 maggio 2008

RAUNO 4 MAGGIO AZIONE CATTOLICA: commento

Una cara amica mi scrive:
"Finalmente la meritata vacanza x te dopo il super evento..! Ho letto qualcosa velocemente..qualke titolo..e subito balza agli occhi qualke titolo ke quantifica il numero di giovani presenti- i giovani sono il termometro dell'evento? Il numero x pubblicizzare la riuscita?"
Sapete che ieri c'è stato il raduno del 4 maggio a Roma con il papa per festeggiare i 140 anni dell'Azione Cattolica.
La nostra diocesi ha partecipato con 600 persone e 11 pullman. Aldilà degli inevitabili disagi che tutti i partecipanti hanno patito (settore scomodo, assenza di sedie, gardini stracolmi, partenza mattiniera ecc...), potrebbe comunque definirsi dal punto di vista numerico un successo organizzativo.
Essendo stato tra gli organizzatori della trasferta diocesana vi offro il personale mio meditato commento.
Spero che eventi del genere non ne siano più organizzati in questo triennio, rimanendo relegati all'una tantum. In proposito mi piace citare a memoria le parole di Carlo Carretto (che organizzò con Gedda il celebre raduno dei baschi verdi nel 1948): "I Cattolici devono resistere alla tentazione di contarsi".
Non nego che fosse giusto festeggiare i 140 anni di A.C. con un evento che parlasse della storia associativa e dei 40 anni della svolta conciliare. Un segnale forte nelle dinamiche intra e extra ecclesiali!
Tuttavia adesso, dopo aver rinnovato il nostro si a questa grande associazione ricordandone la storia, bisogna tornare al lavoro silenzioso nelle parrocchie per continuare a formare le coscienze di un laicato cattolico maturo e responsabile.
Ieri non sono neanche riuscito a fare la comunione; essere arrivato dopo una fila lunghissima a tre metri dal sacerdote e vedermelo andar via perchè era scaduto il tempo mi ha fatto soffrire.
Alla mia amica dico che gli eventi si misurano anche sui numeri dei partecipanti. Tuttavia devo darle atto che mi è sembrato che l'AC volesse più gridare la propria voglia di esserci e di contare, che non testimoniare la fierezza di una storia gloriosa incarnata in un presente che ne sia all'altezza.
La tiritera sul palco per nominare le diocesi presenti all'evento, pur nella sua innocenza e buona fede, ne è stato un esempio lampante.
Sono contento che la mia diocesi non sia stata nominata.
Dobbiamo essere all'altezza di coloro che ci hanno preceduti e hanno contribuito a formare le coscienze e la democrazia del nostro paese.
Ieri abbiamo visto in piazza gente da tutta Italia, abbiamo misurato cosa vuol dire popolarità. L'AC è veramente radicata nel territorio e nelle parrocchie. Questo capitale non va sciupato. Lo ha sottolineato anche papa Benedetto, riferendosi al Convegno di Verona.
Fin quando non sarà valorizzata da tutti (gerarchie e laicato) per quello che è (una grande risorsa per la chiesa per far fronte all'emergenza educativa che ieri ha segnalato il papa), l'AC soffrirà "manie di grandezza" e "voglia di esserci e contare", col rischio concreto di perdere di vista la sua vocazione educativa.
La formazione che fa l'AC, fatta di contenuti e di relazioni autentiche, deve essere eclatante nelle coscienze, almeno quanto l'evento di ieri.
Questo è l'insegnamento che ho tratto dalla giornata di ieri.

giovedì 1 maggio 2008

Le nuove linee guida sulla legge 40/04: le inutili polemiche

Sono state emanate le nuove linee guida della legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita.
Un atto dovuto da parte del ministro uscente?
Un arbitrio? Lo stravolgimento dello spirito e della lettera della legge stessa?
Le linee guida hanno natura regolamentare, cioè sono fonti normative di secondo grado che non possono cambiare in alcun modo il contenuto della legga. Ai sensi dell'art 7 della legge 40/04, hanno il compito di definire "le procedure e le tecniche di fecondazione e sono vincolanti per i centri autorizzati al trattamento".
Esaminando il testo delle nuove linee guida vediamo che, rispetto al vecchio impianto, sono state apportate solo due innovazioni:
1) per l'accesso alle tecniche, c'è stata la parificazione tra stato di infertilità e la presenza di alcune malattie trasmissibili (AIDS ed Epatite B e C) in quanto "l'elevato rischio di infezione per lòa madre e per il feto costituisce di fatto in termini obiettivi una causa ostativa alla procreazione";
2) In merito alla diagnosi pre-impianto, è stato eliminata la limitazione alle sole indagini di tipo "ossevazionale" senza prelievo di cellule dall'embrione;
In merito al primo punto deve sottolinerasi che già le precedenti linee guida prevedevano che per l'accesso alle tecniche era necessario uno screening per le patologie infettive (AIDS ed epatite) le cui "implicazioni per i potenziali figli" dovevano essere prese in considerazione. Inoltre già col precedente testo si definiva la sterilità come l'assenza di concepimento dopo 24/12 mesi di rapporti sessuali non protetti, mostrando così tutti i limiti di una legislazione tesa più a creare una morale che non a regolamentare un fenomeno (come si fa ad essere certi che la coppia abbia per 12/24 mesi avuto rapporti non protetti?). Daltra parte lo stesso TAR LAZIO nella famosa recente sentenza ha sottolineato che, ai fini della certificazione dello stato di infertilità, "dovrà essere ritenuta sufficiente una mera documentazione dell'esistenza di un impedimento alla procreazione." Un qualsiasi impedimento! La stessa legge 40 (ART. 4) d'altra parte parla di infertilità con cause inspiegate o accertate.
L'innovazione della nuove linee guida è in linea o no con la legge 40?
L'art. 4 della legge stessa si limita a stabilire che "il ricorso alle tecniche di PMA è circoscritto ai casi infertilità o sterilità": una definizione monca ed elastica che può ben dar adito letture estensive. E' uno dei limiti di tecnica legislativa della legge 40 che, lungi dal sedare le polemiche intorno alla PMA, le acuisce sempre più, aldilà delle varie opzioni morali degli interpreti.
Le nuove linee guida si incuneano in queste polemiche, proponendo una definizione di infertilità molto allargata (forse un po troppo!), liceizzando con chiarezza (l'accesso alle tecniche ai portatori di AIDS ed epatite) ciò che prima era possibile con una piccola bugia della coppia. Il ministero ha debordato dal proprio compito di dettare le norme relative a tecniche e procedure della PMA, pur dando però una definizione non vincolante, in linea di principio non contrastante con quella legislativa.
Il problema dunque in se, oggettivamente, non è di gran conto. Tutto il dibattito che seguirà su questa piccola innovazione darà a tutti noi la misura delle polemiche e degli atteggiamenti preconcetti dei detrattori e dei difensori della legge 40.
Invece in merito al secondo punto le nuove linee guida non fanno altro che recepire la modifica apportata dalla sentenza di ottobre 2007 del TAR del Lazio, la quale aveva considerato non in linea con la legge la limitazione della diagnosi pre-impianto alle sole indagini di tipo osservazionale, sollevando tra l'altro la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 comma 2 e 3 della legge 40 in relazione agli art. 3 e 32 cost.
In tal caso la modifica era atto dovuto. Qualche parola potrebbe esser però spesa sulle motivazioni della sentenza del TAR.
Il TAR LAZIO ha annullato la limititazione della diagnosi pre-impianto alle sole indagini osservazionali osservando che le linee guida non possono modificare in senso restrittivo o estensivo le definizioni contenute nella legge la quale permette la diagnosi pre-impianto se volta alla tutela dell'embrione stesso.
Ritorniamo quindi alle domande iniziali.
Le nuove linee guida erano un atto dovuto, tuttavia si è aspettato troppo, evidentemente per questioni di equilibri politici. Sono state emanate sulla scorta di un parere del consiglio di presidenza del Consiglio superiore di Sanità, laddove invece era necessario, come prevede l'art. 7 della legge 40, il parere del Consifglio Superiore di Sanità. Secondo, che è stato solo preventivo sulla necessità dell'emanazione non già sul merito del regolamento. Secondo me saranno annullate.
Un arbitrio? Non penso. Non contengono grosse e significative novità e sono comunque in linea con la legge 40.
Contraddicono lo spirito e la lettera della legge 40? Mi sembra un giudizio esagerato e dettato, alla luce di quanto detto, solo da analisi preconcette. La legge 40 non è un baluardo da difendere a tutti i costi...proprio come la 194.
PS: F. D'Agostino su avvenire di oggi cerca di spiegare perchè e per come invece le linee guida contraddirrebbero lo spirito e la lettera della legge 40. eccovi l'articolo:

GRAVE VIOLAZIONE DELLA LEGGE
L’EUGENETICA RIENTRA DALLA FINESTRA

FRANCESCO D’AGOSTINO

E' un dovere per tutti, anche per i ministri e le ministre, rispettare la legge. È doveroso rispettarne la lettera e, ancor più, lo spirito. E so­prattutto è doveroso per tutti, anche per le mini­­stre, praticare l’onestà intellettuale: non ci si può ad esempio vantare di applicare «rigorosamen­te » una legge (come ha fatto la ministra Livia Tur­co nel comunicato che accompagna l’emana­zione delle nuove Linee guida di applicazione della legge sulla Procreazione assistita), quando se ne viola lo spirito – e con ogni probabilità an­che la lettera.
La legge 40/2004 – che invano, ricordiamocelo, si è cercato di abrogare tramite referendum – prende le mosse da due principi fondamentali: la doverosa tutela dell’interesse procreativo delle coppie sterili, che intendano ricorrere alle tecni­che di procreazione assistita; la doverosa garan­zia, nell’applicazione di queste tecniche, dei di­ritti del nascituro, primo tra tutti quello di venire al mondo. Il riferimento che la legge fa alla steri­lità, come presupposto per l’accesso alle pratiche di procreazione, è essenziale, per mantenere lo­ro un doveroso carattere terapeutico ed esclu­derne qualunque uso a fini di mera manipola­zione. Per garantire il diritto alla vita del nascitu­ro, la legge impone (salvo casi eccezionali) di pro­durre in provetta solo quegli embrioni (al massi­mo tre) per i quali la donna sia disposta ad ac­cettare il trasferimento in utero e vieta rigorosa­mente qualsiasi forma a carico degli embrioni di selezione eugenetica.
Le nuove Linee guida violano palesemente am­bedue questi principi. Innovando alla preceden­te regolamentazione, esse ammettono alla fecon­dazione assistita coppie, il cui partner maschile sia portatore di patologie sessualmente trasmissibi­li. L’argomento utilizzato dalla ministra per giu­stificare questa disposizione è che a tali uomini an­drebbe riconosciuto «uno stato di infertilità di fat­to »: categoria, questa, scientificamente priva di senso (dato che costoro sono comunque in grado di procreare) e giuridicamente ambigua: un uo­mo potrebbe ad esempio essere ritenuto «di fat­to » non fertile, solo perché privo di partner fem­minile (magari intenzionalmente, come può av­venire nel caso degli omosessuali). La realtà è che alterando con le nuove Linee guida l’ancoraggio della legge 40 alla sterilità, si muta in radice tutto lo spirito della legge.
Ancora più grave un’altra innovazione delle Linee guida appena pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale. Si ribadisce la disposizione che proibisce di sot­toporre gli embrioni creati in provetta a diagnosi pre-impianto a finalità eugenetica, ma si cassano i paragrafi delle vecchie linee guida che limitava­no le indagini sullo stato di salute degli embrioni a quelle strettamente «osservazionali». La posta in gioco è chiara: aprire la strada a test genetici pre-impiantatori. Con due risvolti: il primo con­cerne la salute degli embrioni, perché qualunque diagnosi che non sia meramente osservazionale ne pone a rischio la sopravvivenza (contraddi­cendo dunque lo spirito della legge, che vuole sal­vaguardare il loro diritto alla vita). Il secondo ri­svolto è ancora più grave: vengono ad essere di fatto consentite le diagnosi a finalità eugenetica, pur formalmente proibite dalla legge. Quando in­fatti, grazie a un test genetico, si informasse la don­na che dei due o tre embrioni procreati in provet­ta uno solo è portatore di una qualsiasi patologia (anche se pienamente compatibile con la so­pravvivenza) l’esito probabile sarebbe la richiesta della donna di accogliere in utero solo gli embrioni 'sani' e di escludere dall’impianto l’ embrione 'malato' (e basterebbe già sottolineare il caratte­re solo probabilistico dei test genetici per rilevare la gravità bioetica di simili pratiche, che portano inevitabilmente alla distruzione di embrioni sani). La stessa strada potrebbe essere percorsa per se­lezionare il sesso del nascituro, trasferendo in u­tero, dopo un adeguato test genetico, solo l’em­brione del sesso desiderato.
L’eugenetica, tenuta fuori dalla porta, rientra co­sì dalla finestra. È innegabile che esista in molte coppie un desiderio di selezione eugenetica dei nascituri (desiderio in alcuni casi, come quelli di patologie estremamente gravi, anche umana­mente comprensibile), ma è altrettanto innegabile che questo desiderio non è compatibile col ri­spetto per le vite create in provetta. Non solo la let­tera, ma anche e soprattutto lo spirito della legge 40 a favore della tutela della vita embrionale sono inequivocabili: le nuove Linee guida alterano si­gnificativamente l’una e l’altro.
Eppure dovremmo tutti, anche le ministre – e so­prattutto le ministre di un Governo giunto alla fi­ne del suo mandato –, rispettare con onestà in­tellettuale la legge vigente, sia nella sua lettera che
nel suo spirito.