domenica 22 febbraio 2015

Perchè Renzi non interviene?!

Già: perchè Renzi non interviene in Campania?!
Domanda legittima che implica tuttavia un passaggio preliminare.
Lo scorso febbraio il segretario del PD ha scelto di andare al governo, stringendo un patto con la minoranza dal partito che ha “tradito” Letta.
Perno di quel patto era anche, tra l’altro, un lassaiz faire che oggi vediamo all’opera in Campania, in Calabria, in Emilia Romagna, in Liguria o nel Lazio.
In tutte le Unioni Regionali ci si è trovati di fronte a grosse difficoltà e quasi sempre la risposta è stata il lasciar correre e andare le cose per il proprio verso. Perchè?
Eppure Renzi gestisce il partito nazionale con criteri democratici e partecipati, includendo le minoranze e lasciando ampi spazi di discussione e confronto nelle direzioni nazionali!
Nè ha fatte più lui nell’ultimo anno che Bersani nei sui quattro anni di reggenza.
Allora la spiegazione deve essere tutta politica.
Renzi ha scelto una via impervia commettendo il gravissimo errore di andare al governo senza essere votato.
Il monito dalemiano della “piscina vuota” è stato abbastanza chiaro. Eppure il premier ha voluto tuffarsi lo stesso e per non trovarla vuota ha dovuto fare qualche compromesso per avere il partito tutto unito con se.
E’ stato costretto a farlo, penso, dall’urgenza delle riforme e del cambiamento di cui è portatore. Sa che se non interpreta in maniera adeguata e pronta quest’esigenza, potrà essere in brevissimi tempi superato da altre proposte che con i suoi medesimi metodi arrivino a rottamarlo.
In effetti la sua unica alternativa è andare avanti, portando qualche risultato concreto e tangibile (vedi gli 80 euro oppure il programma di edilizi a scolastica). Solo ciò ne garantirà la sopravvivenza politica. Quanto al cambiamento nel partito, questo è un problema secondario nell'ottica renziana. Il segretario nazionale sembra convinto che il cambiamento nel partito coli dall’alto per caduta e non proceda dal basso per convinzione.
Tuttavia in questa logica stringente c’è un limite patente. Non vorrei che in un arco temporale ampio di qualche anno questo “compromesso” necessitato con la minoranza ed i potentati locali interni al partito, comportasse lo svuotamento dall’interno dell’efficacia del cambiamento interpretato da Renzi.
Oggi il PD si scontra con il contrasto tra il sogno di interpretarsi come comunità politica e   concreto atteggiarsi in un insieme di comunità sovrapposte e difficilmente comunicanti, se non per cooptazione e cointeressenze personali.
Infatti esistono le comunità dei circoli di base ad un primo livello, poi i gruppi dirigenti provinciali, poi quelli regionali ed infine quelli nazionali. Difficilmente c’è osmosi tra i livelli ed è difficile una comunicazione. Non esiste infatti una scuola di partito degna di questo nome nè esiste una cultura ed un sistema oggettivo di selezione dei dirigenti. Basta parlarsi con qualche alto dirigente, carpendone la fiducia, per trovarsi proiettato in carriere del tutto disancorate dal contesto di un partito-comunità .
In un sistema simile – che poi rispecchia quelli che sono i nostri tempi - appare pure normale che un candidato proveniente da SEL ed iscritto lo scorso dicembre nel circolo di Roma, come Migliore, pensi di potersi candidare governatore democratico in Campania e trovi chi lo sostenga.
Certo non tutto è perduto e la vittoria di Renzi nel PD ha dimostrato che questo partito esiste ed è scalabile e contendibile.
Pertanto tutti siamo chiamati a renderlo sempre più vivo con la coerenza, la competenza e la credibilità democratica che questi tempi nuovi richiedono.
Iniziamo dalle prossime primarie, pretendendo a tutti i livelli che siano corrette e libere, senza spaventarci per un’affluenza che sarà dopo 4 rinvii per forza di cose bassa.

Diego Ruggiero

segretario del circolo PD di Airola (Bn)

lunedì 2 febbraio 2015

Cattolici democratici, non basta Mattarella

Sarà un presidente cattolico? Siamo veramente alla rivincita della Democrazia cristiana? L'elezione di Sergio Mattarella come presidente della Repubblica riaccende il dibattito all'interno del cattolicesimo politico italiano. Sono in effetti domande impegnative. Però appare certo che quella cultura "democristiana a sinistra" di cui Mattarella è esponente autorevole abbia detto qualcosa all'Italia. Certamente con Mattarella quella cultura dimostra di aver formato politici all'altezza di essere riferimenti per la Nazione.
Tuttavia non parlerei nè di ritorno, nè di vittoria della Democrazia cristiana. Mi pare un po' troppo, specie in questo tempo di crisi materiale e morale.
Chi vive dal di dentro la vita di una formazione politica, sa bene quanto oggi i cattolici impegnati in politica vivano un vuoto politico culturale enorme, in assenza di riferimenti laici ed ecclesiali realmente credibili. Una condizione che inizia da dopo il Concilio e non oggi. Allora mi chiedo: essere cattolico, con il suo prezioso bagaglio di energie morali, umane, spirituali e culturali, ha forse scarso senso in questa temperie storica? Non penso. Anzi forse i cattolici italiani, calati nell'humus concreto del Paese, hanno ancora tantissimo da dire alla politica italiana. Il fatto è che oggi non sanno cosa dire. Non si tratta di programmi o cose da fare. Per venti anni, grazie al Progetto Culturale, il programma lo abbiamo avuto... ed era chiarissimo. Ma non è successo niente e le battaglie sono state perse, come quella sulla legge 40.
Allora il problema è più profondo: stregati da un contesto culturale edonista ed individualista abbiamo abdicato in questi anni alla nostra capacità di leggere ed interpretare realmente la realtà italiana. Papa Francesco invece ci indica risolutamente la via. È quella dell'ascolto attento, operante e dialogico nella ricerca della sinodalità che in politica si traduce in "democraticità" delle strutture politiche e dei partiti.
Il punto è: i cattolici oggi impegnati in politica in Italia sanno farlo?  Ed ancora: le nostre strutture formative ecclesiali (parrocchie, associazioni e movimenti) hanno l'obiettivo di formare laici autonomi e con la schiena dritta (obbedienti in piedi mi insegnava il mio presidente di Ac) oppure nella pratica le nostre alte aspirazioni si riducono a formare yes man del don o del mons. di turno?
A me pare che personalità del calibro di La Pira, Lazzati, Dossetti, Fanfani o Moro - esponenti di quella cultura politica che ha formato Mattarella - non fossero proprio degli yes man.

Allora il problema oggi è come ri-generare i cattolici alla politica. Con quale stile e con quali priorità? Infatti è inutile il richiamo a far rivivere la cultura "cattolico democratica" - che oggi sarebbe vincitrice. Quella cultura si è purtroppo consunta con la propria generazione. Non ha saputo rinnovarsi, passando il testimone ad una nuova generazione che autonomamente e responsabilmente ne continuasse la tradizione. Non è neanche demerito dei cattolici democratici. Semplicemente la storia è andata avanti e ha fatto venir meno alcune premesse per il formarsi e perpetuarsi di questa tradizione. Oggi in effetti sulla nostra generazione di cattolici in politica - sapete sono pro-tempore segretario di sezione di un partito e delegato della mia diocesi a Firenze - incombe la necessità dare risposte nuove all'altezza di questi tempi nuovi. Bisogna volare alto. Rinunciare a pensare che politica sia solo fare un cursus honorum che parte dal fare l'amministratore locale per arrivare sempre piu' in alto.
Bisogna porsi domanda alte, partendo dai luoghi più bassi, dalle piazze e dai campanili, perché solo partendo la lì le domande sono sofferte e le risposte vere. Ad esempio, i cattolici italiani per anni si sono divisi sui programmi rispetto alle varie formazioni politiche che hanno - per così dire - fecondato diventando irrilevanti. Hanno mai posto come discrimine delle proprie scelte di collocazione politica, la democraticità delle strutture di partito? Non hanno ceduto alle logiche personalistiche imperanti?! Hanno mai pensato che l'attenzione alle povertà (in una società in declino) fosse prioritaria? Hanno mai pensato alla grande importanza che tanti ormai attribuiscono alle tematiche ambientali o ad interpretare la nuova "cultura della rete"? Non è che qualche volta - io dico spesso - si sono fatti dettare l'agenda delle priorità dalle culture più laiciste, rincorrendo temi importanti ma non essenziali nella vita della stragrande maggioranza degli italiani? Perché la politica se non interpeta e legge la società concreta - quella con lo smartphone in mano - diventa una costruzione a tavolino irrilevante.
Sono solo alcune domande che dovrebbero essere all'ordine del giorno del convegno di Firenze 2015, per dare la svolta che questi tempi nuovi richiedono.