L'abbiccì
della democrazia
Questo saggio
— come ricorda Calogero nella Prefazione dell'edizione del 1968 (in cui occupa
le pp. 3-45) — nacque da una serie di brevi note pubblicate, nell'autunno 1944,
nel giornale romano della Federazione giovanile del Partito d'Azione, «L'Italia
libera». Esse furono poi ristampate, nel 1946, in un volumetto col titolo
L'abbiccì della democrazia, presso l'editore Colombo di Roma (collana di saggi
brevi «Il filo di Arianna»), rapidamente esaurito.
I. PARLARE E
ASCOLTARE
E' stato detto che la democrazia è il sistema di
contare le teste invece che di romperle. Vediamo che cosa implica questa
definizione dall'aspetto bizzarro.
Anzitutto, per, rompere o per contare le teste ci
vuole qualcuno che le rompa o le conti. Ogni atto di questo genere è un atto di
una determinata persona. Ecco dunque un primo punto, che è bene ricordare anche
se può sembrare inutile il farlo. La democrazia, e in genere la politica, non è
una cosa che stia per conto proprio, come una stella o come un pezzo di pane.
La democrazia è una maniera di comportarsi, un modo di agire di Caio o di Tizio
o di Sempronio rispetto a Sempronio o a Tizio o a Caio o al loro gruppo
riunito. Non c'è la democrazia o la non-democrazia, c'è l'uomo che agisce più o
meno democraticamente. La domanda «Che cosa è la democrazia?» si risolve perciò
in quest'altra domanda: «Che cosa debbo fare per essere un buon democratico?».
«Tu devi — si risponderà — non rompere le teste
degli altri, ma contarle». Però, siccome non capita tutti i giorni di rompere
le teste degli altri, e nemmeno di essere sul punto di farlo o con la
tentazione di farlo, bisognerà capire qual è il senso più generale di questo
consiglio, espresso in termini così immaginosi. Ora, se è raro che noi sentiamo
proprio il desiderio di eliminare a colpi di bastone il fatto che un'altra
persona si opponga con la sua volontà alla nostra volontà, è molto meno raro,
invece, che noi ci sentiamo comunque spinti a non tener conto di quella sua volontà,
a fare in modo che essa non ostacoli per nulla il raggiungimento dei nostri
fini. Istintivamente, noi siamo dei sopraffattori. Istintivamente, noi siamo
come i bambini, che devono fare un certo sforzo per capire che non debbono
mangiarsi tutta la torta se ci sono altri bambini che ne desiderano un po'
anche loro. E tanto più ci allontaniamo dalla barbarie della fanciullezza,
tanto più cessiamo di essere piccoli cuccioli di una specie di animali un po'
più intelligenti degli altri e diventiamo uomini, uomini civili, quanto più
comprendiamo che c'è un'altrui volontà, quanto più cerchiamo di tenerne conto.
Questo è dunque, intànto, l'atteggiamento
fondamentale dello spirito democratico: il tener conto degli altri. Per
chemotivo io ne tenga conto, è un'altra questione, è una grossa questione di
filosofia o di morale o di religione o comunque si voglia dire; e si potrà
anche rispondere che la persona 'veramente civile, l'uomo davvero buono e
onesto e disinteressato, è quello che non ha bisogno di nessun altro motivo per
sentirsi indotto a tener conto della volontà altrui, giacché sente di doverlo
fare per se stesso, perché è una cosa che va fatta e basta. In ogni modo,
derivi questo mio atteggiamento di considerazione e di rispetto della volontà
altrui dal fatto che io lo sento doveroso senz'altro, oppure da quello che lo
ritengo dettato da certi ragionamenti teorici o suggerito da ragioni di
convenienza pratica o ordinato da precetti e comandamenti religiosi, quel che
caratterizza lo spirito democratico è che questo atteggiamento abbia luogo. Al
di sotto di questo atteggiamento possono stare le sue varie giustificazioni
teoriche: ma la democrazia comincia col suo manifestarsi. L'unità della
democrazia è l'unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo
dovere di capirsi a vicenda, e di tenere reciprocamente conto delle proprie
opinioni e delle proprie preferenze.
•Ma come si tien conto della volontà degli altri?
Anzitutto, ascoltandoli. Prima ancora che nella bocca, la democrazia sta nelle
orecchie. La vera democrazia non è il paese degli oratori, è il paese degli
ascoltatori. Naturalmente, perché qualcuno ascolti, bisogna bene che qualcuno
parli: ma certe volte si capisce anche senza che gli altri parlino, e non per
nulla si sente fastidio per i chiacchieroni e reverenza per i taciturni
attenti. La democrazia è dunque, in primo luogo, colloquio. E qui vediamo
subito che gli uomini di scarso senso democratico son già coloro che tendono a
sopraffare gli altri nella conversazione, che non stanno a sentire quello che
gli altri dicono, che tagliano loro la parola prima che essi abbiano finito di
esporre il loro pensiero. Ognuno di noi ha almeno un amico nel Partito
Liberale, specialista nella tecnica di conversare parlando complessivamente per
uno spazio di tempo almeno quadruplo di quello lasciato al suo interlocutore...
Chi si comporta a questo modo, fa nella discussione politica quello che si
vergognerebbe di fare in un salotto, dove la buona educazione gli proibirebbe
di parlare troppo più degli altri e di interrompere e di pretendere d'avere
l'ultima parola.
La realtà è che la democrazia vera consiste tanto
nel diritto di parlare, quanto nel dovere di lasciar parlare gli altri. È un
dovere tanto più delicato, in quanto molto spesso le persone più riflessive, e
quindi più capaci di dir qualcosa di utile, sono anche le più riguardose e le
meno disposte a compiere un atto di forza per inserirsi nell'eloquenza
dell'interlocutore e strappargli la parola. Così i mediocri verbosi riescono
spesso a sopraffare gl'intelligenti timidi.
Ma naturalmente questo non va inteso come una
specie di giustificazione per i timidi. Chi è timido deve imparare a non
esserlo, non foss'altro per abituare l'interlocutore a moderare la sua
invadenza, allo stesso modo che si ha il dovere di far valere i propri diritti
per non avvezzar male i prepotenti. E d'altra parte bisogna anche evitare
quella che potrebbe dirsi la pigrizia oratoria, o l'astensionismo
dell'opinione: cioè l'atteggiamento di chi s'interessa sì alle opinioni altrui
ma non fa. nessuno sforzo per pensare con la propria testa e prendere la
responsabilità delle sue idee e contribuire con esse al miglioramento delle
idee comuni. A certe persone lo spirito democratico ordina di parlare un po' di
meno, a certe altre consigliadi parlare un po' di più. C'è una scuola anche in
questo, per raggiungere quell'equilibrio del colloquio, quell'armonico
contemperamento fra intervento proprio e cordiale attenzione per l'intervento
altrui, che è, per così dire, la cellula elementarissima della democrazia.
Ma quando non si è in due a parlare, ma in più?
Ecco che il problema si complica: ecco che può intervenire la necessità che
Tizio faccia star zitto Caio perché non si arroghi troppa libertà di parola a
paragone di Sempronio. È una prima questione di tecnica democratica: la tecnica
della discussione.
2. COME SI
PRESIEDE UNA DISCUSSIONE
Se ci si trova in un salotto e si ha voglia
soltanto di passare il tempo, o tutt'al più d'intrattenere il proprio
interlocutore, non ci si preoccupa del modo in cui la conversazione procede tra
gli altri invitati. Se si è la padrona di casa, e si bada soltanto che la
serata riesca bene, cioè che non sopravvengano in nessun crocchio di invitati
momenti d'imbarazzato silenzio, e la gente non torni a casa annoiata dicendo
male degli ospiti, ci si limita a fare quel che fa la contessa Anna Pàvlovna
nella prima scena di Guerra e pace, quando, «andando e venendo per il suo
salone, si avvicinava a.un gruppo dove si era smesso di parlare, o dove si
parlava troppo, e con una parola o uno spostamento rimetteva in moto la
macchina regolare della conversazione».
In un salotto, in un ricevimento, non importa quel
che si dice: basta che tutti dicano qualche cosa, che il tono sia gaio, che
nessuno si arrabbi e soprattutto che nessuno si annoi. La migliore ricetta per
un ricevimento è quella di non dar troppo peso a nessun tema. Perché se
qualcuno pigliasse troppo sul serio quello che dice, potrebbe accalorarcisi e
guastare il tono della conversazione.
Chi invece, pur chiacchierando in un salotto, cerca
di trarre frutto dal colloquio ed è francamente desideroso di conoscere
l'opinione che, circa l'argomento discusso, ha non solo il suo immediato
interlocutore ma anche ogni altro invitato al ricevimento, si sente orribilmente
sulle spine tutte le volte che la conversazione si scinde in più centri, e
coppie o gruppi di interlocutori si isolano in discussioni separate, come
deviando i loro rivoli dalla comune corrente del discorso. La situazione gli
riesce intollerabile, e il meno che gli capiti è quello di fare strenui sforzi
per cercare di seguire due o tre conversazioni a un tempo, col risultato di non
capirne nessuna e di apparire scortesemente distratto al suo interlocutore più
prossimo. Così, alla fine, egli si riduce a pregare tutti di tornare a una
discussione comune, in modo che non gli sfugga l'opinione di nessuno. Lì per lì
può anche sembrare che egli sia un prepotente e un invadente, il quale voglia
entrare nell'animo di tutti: mentre non è che un assetato delle altrui verità.
La realtà è che è morto in lui, con questo, il
conversatore da salotto o il direttore di conversazioni da salotto, ed è nato
il presidente di assemblea. Il quale, per grande che sia la sala, piglia tutte
le sedie e le poltrone dai vari angoli, e le dispone, in barba all'eleganza e
al maggiordomo, in un cerchio unico.
Perché un'assemblea non è altro che una
conversazione organizzata, così come le conversazioni da salotto sono spesso
assemblee disorganizzate. È una conversazione che si svolge, volta per volta,
su un dato argomento, sul quale deve concentrarsi l'attenzione di tutti i
presenti, senza che sia lecito straniarsi dalla •discussione e isolarsi dalla
comunità in colloqui particolari. È una conversazione a cui si deve partecipare
con un determinato ordine, affinché sia possibile ad ognuno di esporre la
propria opinione, nei limiti di tempo compatibili col diritto di ogni altro ad
esporre analogamente la propria.
Ma per questo è necessario che qualcuno diriga la
discussione. È necessario che ci sia qualcuno il quale abbia autorità
sufficiente per togliere la parola a chiunque si arroghi un diritto di
intervento nel dibattito, non equilibrato rispetto alle possibilità
d'intervento di tutti gli altri interlocutori. E per fissare nel modo più rigoroso
questa regola, si stabilisce addirittura che nessuno abbia il diritto di
parlare se non gliel'abbia concesso, volta per volta, chi dirige. In
un'assemblea democratica, la situazione-base non è il diritto di parlare, è il
dovere di stare zitti. Per poter parlare, bisogna chiedere la parola: e non si
può parlare finché il presidente non l'ha data. Abituarsi a questo è uno dei
primi e più importanti passi dell'educazione democratica, perché è molto
difficile superare la tentazione di interrompere l'oratore o di portargli via
addirittura la parola tutte le volte che ai suoi argomenti si senta di poter
opporre migliori argomenti propri.
Ciò è tanto vero, che perfino nella discussione
condotta secondo le buone regole vige a questo proposito un certo principio
d'indulgenza, rappresentato dal «diritto d'interruzione». Ma l'interruzione
dev'essere strettamente collegata al tema trattato da chi in quel momento sta
parlando, e tale da far pensare che sia opportuno esprimerla subito, perché a
enunciarla in seguito si perderebbe più tempo, dovendosi per ciò richiamare
alla memoria il punto dell'altrui discorso a cui l'osservazione si riferisce.
Anche per questo, poi, l'interruzione è tenuta ad essere brevissima: anzi può
dirsi che essa dev'essere tanto concisa, da concludersi prima ancora che il
presidente si sia accorto dell'intempestivo intervento e abbia aperto la bocca
per reprimerlo. Il suo tempo è, per così dire, il tempo della sorpresa.
D'altra parte, chi dà e toglie la parola, chi
reprime gli interventi indebiti nel dibattito, chi tiene la disciplina
dell'assemblea vietando ai partecipanti di conversare tra loro o di far rumore
e magari alzando per ciò la voce quando non basti il discreto richiamo del suo
campanello, dev'essere, per questo stesso, persona a cui tutti i partecipanti
all'assemblea riconoscano particolare autorità. Il presidente non è l'esecutore
di un compito meccanico: è veramente, per molti aspetti, il direttore della
discussione. Quando si è in pochi, esso si individua, per così dire, spontaneamente:
presiede la discussione chi ne ha preso l'iniziativa avviandola, chi sa meglio
tenerla in pugno evitando che divaghi, chi ha maggiore competenza tecnica
nell'argomento. Quando si è in molti, e tali motivi di indicazione spontanea
sono meno efficaci, allora il presidente va formalmente designato; e se non
viene nominato dall'alto, o non viene estratto a sorte, dev'essere scelto da
quelli stessi che è chiamato a presiedere. La prima elezione a cui deve
procedere un'assemblea democratica è, così, quella del proprio presidente.
La designazione a presiedere un dibattito implica
per ciò stesso tale manifestazione di stima, che non di rado la si adopera
anche a scopo onorifico: un'assemblea può pregare un ospite illustre, di
volerla presiedere. Il presidente di un'assemblea è infatti il primo garante
della democrazia, il custode del-
Ic regole della manifestazione primaria del giuoco
democratico. Ma quali sono queste regole?
3. LE REGOLE
DELLA DISCUSSIONE
La norma più generale, alla quale si deve obbedire
discutendo, è quella di tener conto del tempo di cui si può disporre per la
discussione. S'intende che non sempre c'è un limite di tempo strettamente
definito, come esso è, per esempio, quando in un congresso si stabilisca il
programma dei dibattiti, e non si possa quindi trattare quel dato argomento al
di là di quel certo giorno senza disturbare tutto l'insieme dei lavori. Ma
anche quando non c'è questo limite rigido, si sa sempre, più o meno, quanto tempo
si può pretendere che duri complessivamente il dibattito. Già il fatto di
convenire intorno a un tavolo o in un'aula di assemblea costituisce, per i
partecipanti, un certo sforzo, una scomodità che talora può essere grande, e il
superare la quale costituisce quindi già un primo atto di servigio verso la
democrazia: tanto è vero che è prova di scarso senso democratico l'assenza
dalle assemblee alle quali si è tenuti a partecipare, così come l'assenza dalle
urne quando si è chiamati alle elezioni. Ma per ciò stesso chi parla in
un'assemblea deve tener conto di questo comune spirito di sacrificio, per cui
tutti hanno trascurato le proprie funzioni e faccende personali per convenire a
quel dibattito, e non debbono essere trattenuti più del tempo strettamente necessario.
Prima regola quindi: parlare solo se si ha
veramente qualcosa da dire, cioè qualcosa che possa efficacemente contribuire al
dibattito e non soltanto soddisfare l'ambizione dell'oratore desideroso di
esservi intervenuto. Seconda regola: contenere il proprio intervento in quei
limiti di tempo, per cui si possa presumere che anche gli altri partecipanti al
dibattito abbiano la stessa possibilità d'intervento. Terza regola: cercar
d'esprimere il proprio punto di vista non solo in forma chiara e concisa, ma
anche con quella compiutezza che possa rendere meno necessario e prevedibile un
secondo intervento nella discussione. Quarta regola: rinunciare senz'altro a
parlare tutte le volte in cui il proprio punto di vista sia stato già
adeguatamente espresso da un precedente oratore, o tutt'al più limitarsi a
dichiarare il proprio consenso con esso.
L'osservanza di queste regole, e specialmente delle
prime tre, presuppone naturalmente non solo la buona volontà di rispettarle, ma
anche una certa capacità personale, che è dovere democratico cercare di
accrescere con l'esercizio (nei paesi anglosassoni ci sono addirittura delle
scuole di public speaking, di «tecnica del parlare in pubblico»). Per osservare
la. prima, il chiacchierone deve disciplinare la sua oratoria, così come il
timido deve vincere il proprio senso di esitazione. Per osservare la seconda e
la terza, occorre, possibilmente, non improvvisare senz'altro, ma predisporre
in qualche misura l'argomento e lo schema del proprio sia pur breve discorso. E
per questo, mentre un oratore che leggesse senz'altro quel che ha da dire
farebbe una strana figura (salvo, s'intende, se si trattasse di documenti),
perché dimostrerebbe troppo scarsa sicurezza di sé e darebbe agli intervenuti
una sensazione di noia e di atteggiamento preconcetto e non commisurato
all'andamento della discussione stessa, è del tutto consueto che prima di
parlare si prendano appunti e si elaborino piccolischemi, e il lapis e il
blocchetto di fogli sono di prammatica su ogni tavolo di assemblea.
Se in tal modo l'oratore adempie ai propri obblighi
di riguardo verso i suoi ascoltatori, questi ultimi, a loro volta, hanno il
dovere di starlo a sentire, anche per non dare il brutto spettacolo di parlare
più tardi senza averlo capito e magari di. ripetere quello che ha già detto. In
questo senso, si può considerare come buona regola democratica quella che il
presidente richiami all'ordine non solo chi chiacchiera a bassa voce col vicino
mentre altri parla, ma anche chi legge o scrive curvo sulle sue carte. Certo si
può obiettare, a questo proposito, che ogni oratore ha il dovere di attirare
l'attenzione, e se gli altri non s'interessano al suo discorso la colpa è sua.
Ma, a parte il fatto che un oratore non è tenuto ad essere più avvincente di
tutti gli articoli e di tutte le notizie di tutti i quotidiani del giorno in
cui parla, e che chi si distrae leggendo non è più neppure in grado di
accorgersi se il discorso dell'oratore diventa realmente interessante, c'è bene
il modo di manifestare discretamente la propria stanchezza a un oratore noioso
senza far cose di cui ci si vergognerebbe in qualunque salotto.
Con l'osservanza di queste buone norme sia da parte
di chi parla sia da parte di chi ascolta, la discussione può procedere
ordinatamente, secondo le più specifiche regole della sua procedura. Se i
partecipanti sono pochi, basta. chiedere la parola al presidente, senza
formalità: se i partecipanti sono molti, diventa necessaria la «iscrizione a
parlare», ché permetta al presidente di prendere nota, per ordine, di coloro
che hanno chiesto la parola, e di darla loro nello stesso ordine. Il diritto
cli derogare a questo ordine, e di ottenere la parola subito, si ha soltanto in
due casi: o che si chieda di parlare «per fatto personale», cioè quando
l'ultimo oratore abbia espresso apprezzamenti sull'attività personale del
richiedente, e sia quindi opportuna e legittima una sua replica immediata: o
che si chieda di parlare «per mozione d'ordine», cioè per fare una proposta
concernente l'ordine e l'argomento della discussione, sia esso o meno previsto
nel formale «ordine del giorno» dell'assemblea. Si risponde così, nel primo
caso, all'esigenza di tutelare il diritto di difesa di ciascuno dei presenti
quando l'attesa dell'intervento secondo' l'ordine normale della discussione
possa far restare troppo tempo la persona colpita dall'altrui giudizio in una
situazione di disagio; e, nel secondo caso, all'opportunità di non perder tempo
inutilmente quando la «mozione d'ordine» possa offrire il destro di dare un
diverso e più fecondo andamento alla discussione.
Qualora poi, nonostante il buon volere della
maggior parte dei presenti e le eventuali esortazioni del presidente, la
discussione su un argomento determinato vada troppo per le lunghe, allora si
può chiedere la «chiusura». Se essa è deliberata dalla maggioranza dei
presenti, hanno ancora il diritto di prendere la parola coloro che si erano in
precedenza iscritti a parlare, ma non può più chiederla, su quel determinato
argomento, nessun altro, e subito dopo si deve passare alla deliberazione. È
anche questo un metodo pratico per evitare, in casi determinati, che la
discussione tenda a restare inconcludente.
Queste sono le regole principali della discussione,
per quanto concerne il modo di discutere. Ma su che cosa si discute? E come si
conclude? Naturalmente, non si può determinare in anticipo l'intero contenuto:
ma anche qui ci sono delle regole, a cui la tradizione democratica ha provato
utile attenersi.
4. ORDINI
DEL GIORNO
Se, specialmente di questi tempi, noi fermassimo
sulla strada il primo venuto e gli domandassimo che cosa è un ordine del
giorno, molto probabilmente egli, pensando ai giornali e alla radio e a Stalin,
ci risponderebbe che un ordine del giorno è un annuncio solenne, con cui un
comandante dà alle sue truppe la notizia di una vittoria. Nella vita militare,
di fatto, l'ordine del giorno è quello che si affigge tutte le sere in caserma
con le disposizioni di servizio per il giorno dopo, e nel quale,
all'occorrenza, il comando che lo redige comunica ai reparti dipendenti anche
notizie che egli ritiene di comune interesse. Ma gli ordini del giorno, di cui
tanto spesso si parla nella vita, democratica, sono di specie diversa da
questi, e sono anche di specie diversa tra loro.
Un tipo di ordine del giorno apre la discussione, e
un altro tipo di ordine del giorno la chiude. Il primo è quello che contiene
gli argomenti su cui dev'essere aperta la discussione. Si comprende facilmente
l'importanza di una simile determinazione preliminare. Se infatti l'assemblea ha
funzioni deliberative (e anche un'assemblea consultiva deve sempre prendere
decisioni), il fatto che taluni argomenti possano essere presentati o sottratti
al suo dibattito importa molto. Si tratta quindi di sapere a chi compete la
«fissazione dell'ordine del giorno»: e questi può essere la stessa persona che
abbia l'autorità di convocare l'assemblea (per esempio, il presidente). In ogni
modo, una specie di valvola di sicurezza, a questo proposito, è costituita
dall'uso di aggiungere per lo più, dopo tutti gli altri capi iscritti
all'ordine del giorno, un capo finale col titolo «Varie ed eventuali». E resta
poi fermo il fatto che ognuno ha sempre il diritto di chiedere la parola per
proporre (con una di quelle «mozioni d'ordine» di cui già s'è parlato) la modifica
o l'ampliamento dell'ordine del giorno, e che l'assemblea è libera di accettare
simili proposte, pure essendo meglio in generale che gli argomenti da discutere
siano noti a tutti in anticipo.
L'ordine del giorno che chiude (o può chiudere) la
discussione ha invece tutt'altro carattere. Si esprime in esso uno degli
aspetti più essenziali della stessa natura del dibattito democratico. Questo,
infatti, non è una qualunque conversazione, da cui ciascuno possa tornare a
casa soddisfatto per aver espresso le opinioni proprie e conosciuto le opinioni
altrui. Un dibattito di assemblea deve portare a una conclusione. E questa può
consistere o nella designazione di una o più persone a determinate cariche
(elezione) o in una deliberazione di altro genere. Nell'un caso e nell'altro,
come si dice, si «passa ai voti»: è il momento della decisione, in cui anche
chi non è intervenuto nel dibattito deve prendere la sua posizione (e anche
l'astenersi è assumere un determinato atteggiamento, perché l'astensione deve avere
un motivo plausibile per non essere esitazione, eminentemente antidemocratica,
a prendersi una responsabilità). Ma la decisione può aver luogo solo su tesi
determinate: così, quando non si tratta di scegliere tra certe persone o di
approvare o respingere o modificare un dato provvedimento pratico, ma bensì di
prendere risoluzioni più generali, concretantisi in dichiarazioni o
suggerimenti, occorre che queste dichiarazioni e questi suggerimenti nascano
dalla discussione, come frutti conclusivi dello stesso dibattito, sui quali
possa quindi polarizzarsi la decisione. Spetta perciò a coloro che hanno più
efficacemente contribuito alla discussione di presentare conclusivamente
all'assemblea i testiriassuntivi del loro punto di vista, affinché essa possa,
col suo voto, approvarli o respingerli. Questo testo riassuntivo è appunto
l'ordine del giorno, che vien così ad equivalere a quello, oggi pure usato, di
«mozione».
Risulta da ciò la particolare delicatezza della
redazione di un ordine del giorno. Chi lo presenta (e altri possono associarsi
nella presentazione, firmandolo con lui) deve fare in modo che risulti chiara
la rispondenza del suo testo alle argomentazioni da lui svolte nel dibattito: e
per delucidarla ancor meglio, può prendere la parola, come si dice, «in sede di
illustrazione dell'ordine del giorno», dopo averlo presentato al presidente e
prima che questi lo metta ai voti. D'altra parte, possono esserci ordini del
giorno concorrenti e non del tutto antitetici, cosicché s'intravveda la
possibilità di un solo ordine del giorno che li concili: e allora l'assemblea
nomina, per lo più, una commissione di alcuni membri (tra cui, naturalmente,
gli stessi estensori degli ordini del giorno in questione) incaricata di
giungere a una redazione unica. Altri può, ancora, proporre un «emendamento»,
cioè una modificazione, all'ordine del giorno: e se esso non è *accolto dal
presentatore di quest'ultimo, vien messo ai voti prima dell'ordine del giorno
stesso (restando, s'intende, l'efficacia della sua eventuale approvazione
condizionata a quella, posteriore, dell'ordine del giorno nel suo insieme).
Infine, non è raro il caso che un ordine del giorno, concernendo più di un
argomento, possa essere approvato dall'assemblea in taluni capoversi e non in
altri. Allora esso viene «votato per divisione», cioè con votazioni separate
per ciascuna delle sue parti.
5. VERBALI E
VOTAZIONI
Una semplice conversazione, per lo più, non esige
di essere documentata: o la si ricorda, o la si dimentica. Ma una discussione
democratica deve lasciar traccia di sé. Saranno state in essa prese decisioni,
o votati ordini del giorno, di cui andrà serbato il testo preciso, anche per le
conseguenze che altri dovranno o potranno trarne (siano essi incaricati di
mettere in atto quelle deliberazioni, o comunque interessati ad assumere
rispetto ad esse un certo atteggiamento). E, più in generale, quanto maggiore
sarà stata la serietà con la quale si sarà presa parte a una discussione, ed
assunta in essa la responsabilità di difendere un certo modo di vedere, tanto
più vivo sarà l'interesse- che di tale intervento nel dibattito rimanga il
ricordo esatto. Così, la cura della piena documentazione aumenta col crescere
dell'importanza della discussione stessa. In una conversazione, nessuno piglia
appunti (chi lo facesse, sarebbe anzi guardato con diffidenza, e giudicato
indiscreto: lo si accuserebbe di voler registrare ciò che vuol rimanere
inedito, e di rendere impegnativa una discussione che potrebbe restare
leggera). Di un dibattito democratico di media levatura, si riportano per
intero, naturalmente, i testi delle deliberazioni e degli ordini del giorno,
oltre ai dati concernenti i nomi o il numero dei presenti e le modalità e i
risultati delle votazioni; ma i singoli interventi nel dibattito vengono solo rapidamente
riassunti nelle loro tesi conclusive. Di un dibattito di alta importanza, si
registra tutto fedelmente: così la Camera dei deputati ha i suoi stenografi, e
anche a sedute di commissioni ristrette, ma investite di alta. autorità e
responsabilità, può talora assistere uno stenografo di fiducia, che renda più
facile e integrale l'opera del segretario.
Ogni dibattito democratico presuppone infatti non
solo un presidente che lo diriga, ma anche un «segretario» che Io registri. E
il testo che questi redige è il «verbale». Ogni partecipante alla discussione
ha un naturale interesse a che tale documento storico della discussione sia il
più possibile rispondente al modo in cui essa di fatto si svolse: ed ha quindi
il diritto di difendersi sia dal pericolo che vi siano omesse cose che egli
invece desidera vengano attestate, sia da quello che altre cose siano riferite
inesattamente. Dal primo pericolo, egli può guardarsi chiedendo esplicitamente
durante lo stesso dibattito, quando ciò gli appaia necessario, che una certa
circostanza, o dichiarazione, venga «messa a verbale». Dal secondo pericolo,
l'assemblea stessa, nel suo complesso, si premunisce con la norma di non
iniziare, in ogni seduta, il nuovo dibattito senza prima aver approvato il
verbale della seduta precedente (il quale può esser letto senz'altro, o
comunicato in precedenza a tutti gli interessati, o anche già controllato
preliminarmente da un'apposita commissione per la revisione dei verbali). Ed è
buona norma scrivere i verbali in un registro numerato e controfirmato, in modo
che tale fedeltà storica dell'autenticità della discussione democratica risulti
palese anche nei casi in cui tale formalità non sia richiesta da speciali
disposizioni di legge.
Così nel verbale si registra la manifestazione della
libertà di parola, la quale ha, volta per volta, il suo atto conclusivo nella
votazione. Quest'ultima, s'è già visto, è assai più comprensiva della
«elezione»: per eleggere, infatti, bisogna votare, mentre si può votare per
deliberare e non per eleggere. E le difficoltà più complesse della, tecnica
della votazione derivano, appunto, dalla esigenza di eleggere, cioè di
scegliere gli uomini: le vedremo in seguito. Consideriamo qui un momento i
caratteri della votazione in generale. Essa può essere palese, o segreta. È
segreta, tutte le volte che si ritiene che preoccupazioni personali, di
qualunque genere, possano trattenere il votante dal seguire con piena libertà
le genuine indicazioni del suo convincimento. La votazione segreta è con ciò,
in fondo, una concessione alla viltà, o all'ipocrisia, dell'uomo. Ma siccome
non è possibile far sì che da un momento all'altro tutti diventino specchi di
coraggio e di sincerità, e siccome imporla, invece, che il controllo
democratico possa funzionare con sufficiente efficacia, così un profondo
interesse etico-politico impone di salvaguardare il metodo della votazione
segreta in tutti i casi in cui esso appaia raccomandabile (le dittature amano
molto la sincerità di chi dice sì ad alta voce!). Quando la votazione è palese,
e i votanti sono in gran numero, essa, invece che per «appello nominale», può
avvenire «per alzata di mano», o «per alzata e seduta». S'intende che il
presidente, mettendo ai voti il punto in questione, avverte l'assemblea circa
il significato di approvazione o disapprovazione da dare all'uno o all'altro di
quei gesti; e per non errare nel computo numerico dei voti favorevoli e
sfavorevoli, fa, specialmente nei casi dubbi, la «controprova». Tutto ciò non
accade, s'intende, quando dalla discussione sia emersa una sostanziale
concordanza di opinioni: quando cioè abbia luogo l'«unanimità», o addirittura
un'approvazione per «acclamazione».
In, tutti gli altri casi, prevale l'opinione del
maggior numero, anche quando sia in sé più saggia quella della minoranza.
Questo è il punto cruciale, l'aspetto più delicato della democrazia. Per qual
motivo, i pochi (che possono essere i migliori) debbono sempre aver torto?
6. IL
SIGNIFICATO DELLA MAGGIORANZA
Se i pochi sono i più intelligenti, o i più onesti,
perché deve prevalere, sulla loro opinione, l'opinione dei molti? E non accade
proprio che l'intelligenza, l'assennatezza, l'onestà siano piuttosto patrimonio
dei pochi che dei molti? Se da un lato. c'è Socrate e dall'altro il popolo
ateniese che gli dà torto e lo condanna,, perché bisogna attenersi alla
decisione della folla piuttosto che all'opinione del saggio?
Fin dalle classiche discussioni dei filosofi sulle
istituzioni dello stato greco, è questo l'argomento più spesso rivolto contro
la democrazia e contro la sua struttura maggioritaria. E se n'è servito
largamente anche il fascismo. Uno degli aspetti sotto cui l'antica idea del
«governo degli ottimi» si è trasferita, specificata e immiserita nelle
polemiche dell'autoritarismo e del paternalismo moderno è infatti, per esempio,
quello del «governo dei tecnici». Chi può negare, del resto, che al Ministero
dei lavori pubblici, o dell'agricoltura, o della marina, debbono stare coloro
che meglio s'intendono di lavori pubblici, di agricoltura, di marina, e che la
loro opinione può non cessare d'esser la più degna di venir seguita e tradotta
in atto anche se in certi casi si trovi ad essere opposta al parere dei più?
La realtà è che le cose non stanno solo a questo
modo. E proprio perché hanno anche una diversa prospettiva, nasce il bisogno
del sistema della maggioranza e della democrazia. Se non ci fosse da
considerare che la competenza e la sapienza, cioè l'attitudine tecnica a
risolvere determinati problemi, allora si potrebbe andare avanti nello stesso
modo in cui si va avanti nel campo più specificatamente professionale: con gli esami.
Come i medici apprendisti sono a un certo punto autorizzati ad esercitare dai
più anziani e autorevoli dei medici già in funzione, così gli uomini politici
giovani dovrebbero prima non farsi bocciare dagli uomini politici già arrivati,
e poi acquisterebbero il diritto di prendere il loro posto quando essi fossero
andati a riposo per limiti di età. C'era un paese dove questo sistema
funzionava largamente: era il paese dei mandarini, la vecchia Cina. E c'è una
mentalità che è sinceramente favorevole a questo sistema: la mentalità
rappresentata da quel generale piemontese, ricordato dal Croce, il quale non si
rendeva conto del perché gli italiani fossero tanto angosciati alla morte di
Cavour, e osservava: «Da noi, nell'esercito, se muore un generale, basta
promuovere il colonnello più anziano, e tutto ritorna a posto».
È evidente, infatti, che se si trattasse soltanto
di dare diplomi di abilitazione e di nominare e di promuovere, il meno che ne
nascerebbe sarebbe l'immobilità o la semi-immobilità politica. I vecchi non
approverebbero se non i giovani che la pensano come loro; e questi ultimi, nel
migliore dei casi, sarebbero costretti a mentire per metà della vita, per poter
poi fare di testa propria nella seconda metà. Insomma, la vecchia Cina. Una
simile situazione, d'altronde, presuppone un'estrema ignoranza e inerzia e
condiscendenza da parte della gran maggioranza del popolo, giacché basta che
quest'ultimo non sia proprio nella condizione di assoluta impossibilità di
controllo e di giudizio in cui si trovavano i vecchi contadini cinesi (e in cui
si trovano ancora moltissimi contadini analfabeti del nostro Mezzogiorno, anche
se le lettere dell'alfabeto italiano sono molto meno di quelle dell'alfabeto
cinese), perché opponga una certa sua opinione all'opinione dei competenti, e
per esempio nonvoglia saperne del medico patentato quando si sia convinto che
ciò nonostante è un asino. Si pensi dunque a quello che succede quando non si
tratti più di medici o di ingegneri o di avvocati, che sono molti e tra cui
quindi si può liberamente scegliere, integrando il giudizio dei competenti con
la preferenza propria, ma bensì del capo di uno stato o di un comune, che è una
persona sola e che quando è investita della sua carica esercita la sua autorità
su tutti, o dell'approvazione di una norma di legge, che quando è stata sancita
costringe egualmente la volontà di tutti, e non permette più di dire: «Questa
legge non mi piace; scelgo quest'altra perché la preferisco».
Ecco dunque che il problema della convivenza
politica non è tanto il problema del dominio della saggezza, quanto piuttosto
quello dell'accordo dei conviventi nell'accettazione di una regola comune.
S'intende bene che sarà meglio se questa regola sarà anche saggia: ma intanto
occorre che ci sia una regola, e quindi anche un regolatore o un complesso di
regolatori, nella cui accettazione tutti siano d'accordo, perché alt ri menti
non c'è società civile, ma solo disordine e «diritto del pugno» . E siccome è
difficile che in simile scelta e accettazioiIC siano d'accordo tutti, fino
all'ultimo uomo, così è pur preIèribile che le persone le quali, in tale
assunzione d'impegno a rispettare una norma o un'autorità, hanno agito in base
a un libero convincimento, siano almeno in numero maggiore di jluelle che,
essendo di opinione diversa, cioè desiderando una diversa norma o una diversa
autorità, sono pur tenute oramai ;icl accettare quella preferita dagli altri.
Una società è tanto più ivile, quanto più vasta è la sfera di libertà, cioè di
possibili(\ di azione spontanea, che essa può equamente assicurare a i iascuno
dei suoi componenti: occorre quindi che almeno il maggior numero possibile di
essi senta come manifestazione della propria libertà la stessa scelta delle
norme limitative della comune libertà.
Significa questo, d'altronde, che sia senz'altro
escluso il problema della scelta più saggia? Evidentemente, no: perché non è
saggio soltanto colui che ha le migliori opinioni, ma anche (e più) colui che è
insieme capace di convincere gli altri che le sue opinioni sono le migliori;
cioè che non solo è capace di ben pensare, ma anche di condurre altrui a ben
pensare. La democrazia, costringendo i saggi a uscire di clausura, mette in
certo modo la loro stessa saggezza al banco di prova, e la rende più umana e
più consapevole della sua continua obbligazione morale.
Sorge bensì l'ulteriore problema: i quarantanove
votanti, che hanno dovuto accettare le preferenze dei cinquantuno, non hanno
diritto anch'essi a una qualche considerazione? Il principio maggioritario è
uno strumento del quale non si può fare a meno: ma non c'è modo di tenere in un
certo conto anche la volontà delle minoranze? Una democrazia bene organizzata
deve saper rispondere anche a questa domanda.
7. MINORANZE
E PROPORZIONALI
L'esigenza di tener conto della volontà della
minoranza pone un problema diverso a seconda che si tratti di votare
deliberazioni o dichiarazioni o norme, o invece di eleggere persone a
determinate cariche..
Nel primo caso, il problema si risolve non tanto
con accorgimenti tecnici, quanto con l'intervento dello spirito di
con-ciliazione e di comprensione reciproca, nei limiti, s'intende, in cui
questo possa aver luogo. Se si tratta di decidere circa la pace o la guerra, è
chiaro che non c'è via di mezzo: prevarrà l'opinione della maggioranza, e la
minoranza dovrà piegarsi ad accettarla, anzi dovrà sentirla senz'altro come
propria, dal momento in cui sarà divenuta opinione della comunità. Ma se sono
in contrasto due ordini del giorno, o due disegni di legge, può accadere che attraverso
la discussione emerga la possibilità di giungere a una dichiarazione, o a una
norma, che contemperi le opposte esigenze; e allora l'unanimità, o almeno una
più vasta maggioranza, nasce tanto dalla volontà della maggioranza già
delineatasi, di dare una più vasta base alla propria decisione, quanto dalla
rinuncia della minoranza a serbare un atteggiamento di opposizione
intransigente.
E s'intende che la maggioranza sentirà tanto più
viva l'esigenza di accogliere anche l'opinione della minoranza in una soluzione
d'intesa, quanto più la decisione avrà peso per la coesione strutturale della
democrazia, cioè per lo stesso spirito di unione tra maggioranza e minoranza.
Così, in tutte le situazioni in cui la coesione democratica è debole (dieta di
Polonia; Società delle Nazioni; stadi iniziali di formazione di ogni società o
comitato o partito) vale non il principio della maggioranza ma quello
dell'unanimità, ossia il diritto di veto anche da parte di uno solo dei
partecipanti. E anche in situazioni di democrazia consolidata, quando si tratti
di modificare certi aspetti fondamentali della struttura democratica (per
esempio nel caso di proposte di emendamenti alla Costituzione), si richiede,
per lo più, non la semplice maggioranza della metà più uno, ma una maggioranza
più forte, per esempio quella dei due terzi o dei tre quarti dei votanti.
Nel secondo caso, la questione naturalmente è
insolubile qualora la persona da eleggere sia una sola. Il presidente degli
Stati Uniti d'America è l'eletto della maggioranza, e la minoranza è del tutto
assente dal vertice del potere esecutivo. Ma quando si tratti di eleggere un
corpo di rappresentanti, il problema ammette soluzioni, e si tratta solo di
sapere se si accolga l'esigenza di risolverlo, e in che modo si preferisca farlo.
Se si respinge l'esigenza (e ciò può accadere
quando si desideri l'elezione di un corpo molto compatto, capace di rapide
decisioni e disposto a prendere su di sé la totale responsabilità del suo
operato di fronte all'opposizione della minoranza), non c'è altro sistema che
quello delle liste contrapposte, da votare in blocco come se si trattasse di un
nome solo (e quindi con «ballottaggio», cioè con seconda elezione, tra le
dualiste più votate, qualora nessuna di quelle proposte alla prima elezione abbia
raggiunto la maggioranza assoluta, della metà più uno dei votanti).
Se invece si desidera che la minoranza sia
rappresentata (e questo bisogno è molto sentito specie per quel che concerne le
assemblee legislative, che debbono essere largamente rappresentative della
volontà popolare) la contrapposizione delle liste concorrenti deve aver luogo
solo nel senso, che i candidati in esse proposti risultino eletti in
proporzione delle preferenze dei votanti. Queste preferenze possono
manifestarsi con la libertà di sostituzione di qualunque nome a quelli proposti
nelle liste, che quindi vengono a serbare un valore puramente indicativo: e ciò
accade, per lo più, in elezioni di corpi rappresentativi di non grande entità.
Quando invece, per la maggiore vastità e importanza del rapporto tra
rappresentantie rappresentati (come per esempio nelle elezioni dei deputati al
parlamento) anche l'indicazione dei candidati abbia una sua disciplina, allora
si può avere la più rigorosa «rappresentanza proporzionale», nel senso che di
ogni lista' concorrente, presentata da ciascun partito o gruppi di partiti,
risulti eletto quel numero di nomi (a partire dal primo, e salvo il computo
delle indicazioni «preferenziali») che stia al numero dei nomi eletti delle
altre liste come stanno tra loro i numeri dei voti da esse ottenuti.
Contro questo sistema dello «scrutinio di lista», i
difensori dell'opposto sistema del «collegio uninominale» fanno bensì valere il
fatto, che oltre all'esigenza di un'esatta proporzionalità rappresentativa delle
generali tendenze politiche della nazione, c'è anche quella della conoscenza
diretta delle situazioni locali, e del più stretto contatto fra eletti ed
elettori: e ad essa risponde meglio la divisione del territorio nazionale in
tanti «collegi elettorali», da ciascuno dei quali debba risultare eletto un
solo deputato (mentre il sacrificio delle minoranze non rappresentate potrà
controbilanciarsi e compensarsi nei vari collegi). Come si vede, il problema
generale della rappresentanza democratica si complica, qui, con quello delle
rappresentanze locali, e quindi del rapporto tra amministrazione centrale e
amministrazione regionale, autorità del centro e autorità della provincia. La
scelta o il contemperamento tra le opposte esigenze è quindi un delicato problema
politico, che va risolto caso per caso, in ogni concreta situazione storica.
8. LA
QUESTIONE DI FIDUCIA
Qualunque autorità che, eletta da un insieme di
individui, sia perciò chiamata a interpretarne il volere nella sua attività di
direzione o di governo, deve goderne, come si suol dire, la fiducia. Nessuno,
infatti, può essere legato a tal punto dal mandato ricevuto dai suoi elettori,
da potersi considerare co" me una sorta di esecutore meccanico dei loro
ordini. Le situazioni che si debbono fronteggiare sono sempre nuove, e guai a
quei dirigenti che innanzi ad ogni novità dovessero tornare a chiedere il
parere di coloro che li hanno eletti al posto di comando. Per questo i
cosiddetti «mandati imperativi» sono rari, e possono aver senso, per esempio, per
i delegati a un congresso, e in ordine a certi problemi già ben noti e discussi
dai mandanti: non mai per un'autorità che debba esercitare una funzione
direttiva di una certa durata. Diffidenza verso l'autorità significa, invero,
autorità debole, autorità di scarsa durata: è il tipo di autorità verso cui
tende la psicologia dell'anarchismo, secondo cui tutte le cariche dovrebbero
essere revocabili ad nutum, al solo cenno di coloro che le hanno assegnate.
In questo senso, ogni stabile autorità democratica ha
bisogno di una certa «fiducia», corrispondente all'ambito di potere autonomo
che l'elettore lascia al suo eletto, per tutta quella parte di attività che non
può precisamente prevedere e programmare e per la quale si rimette alla sua
capacità e lealtà. Il «governo forte», in questo senso, è il governo che «gode
fiducia», e le democrazie meglio organizzate sono quelle in cui si dà largo
credito all'autorità una volta istituita, in modo da permetterle di fare
largamente la sua prova senza la continuaossessione di dover rendere conto
giorno per giorno del suo operato. La diffidenza dal basso crea le autorità
deboli e discontinue, e queste screditano la democrazia e ne preparano la
rovina. La gente meno esperta comincia a sognare il dittatore, che abbia la possibilità
di agire senza essere criticato e fermato ad ogni istante.
Ma, proprio affinché per altro verso non nasca e
non si sviluppi una psicologia tendenzialmente dittatoriale, è necessario che
l'autorità, la quale deve godere della fiducia, non accampi troppo spesso il
diritto a questa fiducia. La cosa vale per un governo rispetto al parlamento,
così come per qualsiasi comitato direttivo o amministrativo o esecutivo, che si
trovi a dover rendere conto, più o meno spesso, del suo operato, o alla
assemblea degli associati o a un loro organo rappresentativo. Se in un
dibattito il ministro, o il membro del comitato esecutivo, la cui attività o la
cui intenzione viene discussa, ha la sensazione che, effettivamente, tale
discussione implichi la possibilità di un giudizio negativo su tutto l'insieme
della sua azione direttiva, allora egli ha il diritto (e in certi casi
addirittura il dovere) di «porre la questione di fiducia» su quel punto, cioè
di chiedere che, esprimendo il suo voto sulla questione discussa, l'assemblea
sappia che egli interpreterà il suo voto anche come giudizio circa la sua
attività in generale, e quindi si riterrà costretto a dimettersi dalla carica,
qualora la tesi da lui difesa resti in minoranza.
Se però, tutte le volte che un'assemblea discute
qualche punto della politica dei suoi dirigenti, questi pongono la questione di
fiducia sul voto che può concludere la discussione, allora è chiaro che la
stessa capacità di controllo e di consi- glio, che dev'essere riservata
all'assemblea, viene fortemente diminuita, se non addirittura annullata. Un
dirigente che, di fronte a qualsiasi ordine del giorno in cui fosse espressa
una critica per una soluzione adottata e una raccomandazione di seguire una
diversa linea di condotta, ponesse la questione di fiducia, e cioè minacciasse
le dimissioni qualora l'ordine del giorno fosse approvato, dimostrerebbe scarsa
sensibilità democratica, perché avvierebbe a poco a poco il rapporto tra sé e
l'assemblea proprio verso la situazione dittatoriale o predittatoriale, in cui
gli individui convocati hanno sempre «fiducia nel capo», e non si discute e non
si vota più (se non per acclamazione).
Chi dice troppo spesso: «Abbiate fiducia in me»,
rischia di arrivare alla fine a dire: «Non disturbate il pilota (già è troppo difficile
il governo della nave, perché io debba essere anche frastornato dai vostri
contraddittori)». Ora, il «non parlate col manovratore» sta bene scritto sui
tram: scritto in una sala di assemblea, sarebbe la prefazione del fascismo.
Anche qui, come si vede, la democrazia sta nel mezzo, tra quel difetto di
fiducia, che conduce all'anarchia, e quell'eccesso di fiducia, che conduce al
dispotismo.
E come si determina questo giusto mezzo?
Approssimativamente, cercando sempre di ben distinguere le questioni concrete,
rispetto alle quali ci si presenta all'assemblea con sincero intento di
riceverne lume e suggerimento, dalle altre questioni più generali, sulle quali
non si può transigere perché investono un orientamento personale già definito e
nel quale, effettivamente, o l'assemblea ha fiducia o non ha fiducia. Anche il
più umile dei dirigenti deve cercare di ben abituarsi e addestrarsi a simile
distinzione, perché solo in tal modo si farà un animo veramente democratico.
Solo in tal modo riusciràbene a distinguere quando un voto contrario esigerà
davvero le sue dimissioni e quando invece esigerà qualcosa che è spesso più
disagevole delle dimissioni stesse: l'obbedire alla volontà dell'assemblea,
facendola diventare volontà propria.
9 DEMOCRAZIA
POLITICA E DEMOCRAZIA SOCIALE
Secondo tutto quel che abbiamo fin qui veduto, lo
spirito democratico è costituito in primo luogo dalla volontà di non imporre
unilateralmente le proprie opinioni e le proprie preFerenze agli altri, ma anzi
di permettere e procurare che questi possano manifestare e far valere le loro,
cosicché le norme e i provvedimenti destinati a influire sulla vita comune
rispondano effettivamente all'interesse di tutti. Ma fare in modo che gli altri
abbiano la possibilità costituzionale di esprimere la loro opinione e di
renderla efficace significa anche compiere tutto ciò che è necessario affinché,
realmente, questo accada.
Io posso concedere la parola ad altri: ma se questi
è muto, la mia licenza non gli donerà la favella. E certo, in questo caso non
sarà la legge, o la politica, a dare a quel muto la vera libertà di parola:
gliela darà, se mai, il medico, o il maestro specialista nell'educazione dei
sordomuti, se ne sarà capace.
esempio giova tuttavia a richiamare alla memoria
situazioni Darticolari, in cui pur vediamo come si manifesti la nostra esigenza
di offrire uno speciale aiuto a chi incontri ostacoli Per fruire pienamente di
quel diritto di parola, che riconosciamo a lui non meno che a noi. Se un
individuo è loquace, e tende a soverchiare gli altri nella conversazione, noi
non abbiamo ritegno a tagliargli il discorso in bocca; ma se un individuo è
balbuziente, e fa uno sforzo visibile per esprimere il suo pensiero, noi
cerchiamo di dargli più tempo nel dialogo di quanto pretendiamo per noi, noi
stiamo a sentirlo con più amorevole attenzione, noi lo trattiamo, insomma, con
speciale riguardo. E certe volte accade che un piccolo difetto di parola possa
ridondare a vantaggio di chi lo ha, proprio perché gli interlocutori si trovano
di fronte a lui in uno stato di maggiore obbligazione morale, e sono quindi, in
conclusione, portati ad ascoltarlo più attentamente, ad interromperlo meno:
così come Roosevelt, che per la sua paralisi stava per lo più seduto e non si
alzava per salutare, traeva da questa stessa sua inferiorità un certo maggior
prestigio di fronte ad ogni interlocutore.
Ora, se, dopo aver considerato gli ostacoli che al
pieno esercizio della libertà di parola e d'intervento può opporre la
condizione fisica della persona, esaminiamo quelli che possono invece esser
provocati dalla condizione economica, troviamo che, in conclusione, non c'è
essenziale differenza. Come non sarebbe un vero democratico colui che, fermo al
principio della semplice libertà di parola e di voto, non si preoccupasse di conoscere
l'opinione e di tener conto della volontà di un muto o di un paralitico per il
solo fatto che esso non può parlare o non può muoversi per avvicinarsi all'urna
delle votazioni, così non sarebbe un vero democratico colui che, fermo agli
stessi principi, non si preoccupasse di sapere se Tizio non ha avuto la
possibilità di esprimere il suo punto di vista solo perché, poniamo, non gli
bastava il denaro per prendere il mezzo di trasporto necessario a partecipare a
quella data riunione, o se Caio non ha potuto crearsi una maggioranza
favorevole al suo punto di vista solo perché non ha avuto adisposizione i mezzi
di propaganda di cui si è invece servito il suo competitore.
Ecco dunque il punto cruciale, in cui la pura
democrazia politica viene per forza a sfociare in quella che, a contrasto, può
e suol dirsi democrazia sociale. Non basta, come si dice, il vuoto diritto
giuridico d'intervento: occorre anche la piena possibilità economica
dell'intervento. Così formulata, la contrapposizione può bensì essere inopportuna,
in quanto può suggerire l'idea che i diritti e le libertà «giuridiche» siano
soltanto «vuote», e che la pienezza delle «possibilità» umane si acquisti
soltanto spostandosi sul terreno economico. In realtà, una certa «pienezza» è
anche in quei diritti, essendo un bene molto concreto (e che all'occorrenza si
potrebbe esser disposti a scambiare con grandi. ricchezze, cioè a valutare
altamente anche sul terreno economico) quello, per esempio, di non esser
costretti a seguire la volontà altrui senza possibilità di protesta, o di esser
garantiti dal rischio di andare in prigione in caso di compimento di una simile
protesta. Anche la purissima libertà di pensiero e di parola, sancita negli
articoli di una costituzione, è una libertà concreta; e guai a chi pensasse
che, non avendo essa ancora quella diversa concretezza che appartiene, poniamo,
alla libertà di spendere in quanto si ha il denaro in tasca, essa potesse
essere abbandonata senza danno qualora non si possedesse anche questa seconda e
diversa libertà (o, che è lo stesso, quando già la si possedesse, e si credesse
che essa sola è quella che importa).
Ma se bisogna ben ricordarsi che anche le libertà
«pure» sono beni che costano, è anche necessario tener sempre presente che,
oltre alla sicurezza di non venire impediti dalle autorità nell'esercizio della
propria libertà politica, occorre anche la sicurezza di poter esercitare questa
stessa libertà senza che ad essa si opponga la schiavitù economica, cioè la
miseria. Bisogna dare ad ognuno non solo uguale diritto d'intervento nella
determinazione della sorte comune, ma anche eguale possibilità concreta di
mettere in atto questo intervento.
E ciò significa, allora, occuparsi non solo dei
problemi della libertà politica, ma anche di quelli della eguaglianza sociale.
Come è un falso liberale colui che, sapendo che ogni ragazzo è giuridicamente
libero di andare a scuola, crede che tutti i ragazzi siano effettivamente
liberi di andarci e non si preoccupa di sapere se hanno i quattrini per farlo,
così è un falso liberale colui che si preoccupa soltanto del fatto che tutti i
cittadini abbiano pari diritto di voto, e non anche del fatto che abbiano pari
possibilità di formarsi una cultura, di crearsi delle opinioni, di metterle
alla prova della propaganda e del pubblico consenso. Chi, insomma, dice che
vuol difendere in primo luogo la libertà politica, perché solo questa potrà poi
creare la giustizia sociale, e non scorge che c'è anche una giustizia sociale
che è condizione essenziale della stessa libertà politica, non ha il diritto di
dire che difende il valore morale della libertà di fronte al valore meramente
economico della giustizia, perché in realtà non difende che una libertà
dimezzata, cioè una morale a metà.
IO.
LIBERALSOCIALISMO
Ma se, per ciò che si è detto, l'eguaglianza
sociale è condizione della libertà politica (ossia, più esattamente, se è vero
che ogni progresso nella eliminazione dei privilegi economi-ci è condizione
necessaria, per quanto non sufficiente, per-il progresso nella eliminazione dei
privilegi politici), non bisogna poi credere che soltanto in vista della
libertà politica sia (la ricercarsi l'eguaglianza sociale.
C'è infatti l'errore (opposto) di chi crede che la
democrazia non debba valere altro che come mezzo per il raggiungimento
dell'eguaglianza sociale. Se ci si pone da questo punto di vista, si può
rischiare di perdere completamente il senso del valore della democrazia
politica. Ammesso, infatti, che una transitoria dittatura fosse egualmente
capace di portare a quella eguaglianza sociale, allora potrebb'essere benvenuta
anche tale dittatura; anzi si potrebbe, eventualmente, preferirla, qualora si
pensasse che a quello scopo essa sapesse condurre meglio che un regime di
libertà. È questo, come tutti sanno, l'errore a cui può condurre l'aspetto meno
plausibile del marxismo: l'errore di chi, in sostanza, sottolinea troppo il
vantaggio della disponibilità dei beni economici, e non s'accorge che una
situazione di cose, nella quale ognuno possedesse una giusta quota di
ricchezza, e non avesse alcuna (o avesse troppo scarsa) possibilità d'influire
sulle decisioni d'interesse comune, potrebbe essere assai più triste e rovinosa
di quella nella quale si possedesse questa libertà e non si avesse
quell'uguaglianza. Perché in quest'ultimo caso, almeno, sarebbe dato salvarsi
da una guerra non voluta dalla maggioranza del popolo e da una dilapidazione
del denaro pubblico compiuta dai suoi dirigenti; mentre a tali iatture non ci
sarebbe modo di opporsi nell'altro caso, ed esse, sopravvenendo, potrebbero
annullare ogni vantaggio dell'uguaglianza economica.
Ma se, in questo senso, è errato considerare la
libertà politica come semplice strumento per raggiungere il fine dell'u-guaglianza
economica, è altrettanto unilaterale il pensare che l'uguaglianza economica
debba valere soltanto come mezzo per integrare una condizione di effettiva
libertà politica. Che non si sia pienamente liberi se non quando si disponga
anche dei beni economici necessari per mettere concretamente in atto tale
libertà, è chiaro: ma che la libertà di disposizione di queste stesse ricchezze
non abbia altra giustificazione all'infuori di quella di poter con esse
esercitare i diritti politici, è un altro conto. Qui si cadrebbe in una
sopravvalutazione della politicità, la quale sarebbe lontana dal vero quanto è
lontana la sottovalutazione che ne compie chiunque sogna un mondo perfetto, in
cui tutti fruiscano beatamente dell'uguaglianza dei beni e nessuno discuta e
combatta politicamente, perché (come si dice) non c'è più differenza di classe
e quindi neppure contrapposizione d'interessi. La realtà è che l'uomo afferma
se stesso non soltanto discutendo e decidendo e deliberando, ma anche
lavorando, costruendo, mangiando, amando, fruendo insomma di tutte quelle possibili
forme della vita, che appaiono a lui meritevoli di esser vissute. E quindi per
ciascuna di queste egli deve avere la sua libertà; esattamente come deve avere
la libertà di contraddire e di dare il voto. Chi impedisce o rende più
difficile ad un uomo di mangiare il suo pane o di sposare la donna che ama,
pecca contro lo spirito non meno di colui che gli impedisce o gli rende
difficile di esprimere le sue opinioni e di farle valere per le decisioni della
comunità.
Libertà politica ed uguaglianza sociale sono quindi
ad un tempo fine e mezzo, in quanto ogni progresso dell'una favorisce il
progresso dell'altra: e per ciò stesso è forse più opportuno non chiamarle né
fine né mezzo, ma dire piuttosto che sono aspetti concomitanti e coessenziali
di quella democrazia integrale, in cui democrazia politica e democrazia sociale
risultano indissolubilmente congiunte come le due facce di una medaglia, la
quale non può avere una faccia sola e non può avere più di due facce.
Nella storia del pensiero e dell'attività politica,
tutte le concezioni che hanno più altamente sollevato la bandiera della libertà
politica hanno per lo più assunto, come nome di battaglia, quello del
liberalismo; mentre sotto l'emblema del socialismo si sono sempre più venuti
schierando tutti coloro che, pensosi delle ingiustizie sociali e delle
disparità della, ricchezza, hanno studiato i modi di assicurare agli uomini la
libertà dal bisogno. Ma i liberali hanno poi avvertito sempre più chiaramente
che, se volevano essere davvero liberali, dovevano spingersi sempre più anche
sul terreno del socialismo; e i socialisti si sono sempre meglio venuti
accorgendo che non avrebbero potuto realizzare i loro ideali se non in
un'atmosfera di libertà, e attraverso le garanzie politiche della libertà. È
un'esperienza storica che si è venuta sempre più compiendo, che si
approfondisce ogni giorno, e che porta gli uni e gli altri a sentire la
complementarità degli opposti punti di vista. La democrazia vera, la democrazia
integrale, non è dunque né soltanto una democrazia liberali né soltanto una
democrazia socialista, è piuttosto una democrazia liberalsocialista.
Roma, autunno
1944