Cari amici,
un recente articolo di Vittorino Andreoli apparso su Avvenire ha suscitato un aspro dibattito tra il giornale della Cei e il quotidiano genovese Secolo XIX. Motivo della contesa è stata la scelta di Avvenire di pubblicare un articolo di Andreoli che parte da una visione delle tendenze omosessuali lontana da qualle alla base del magistero cattolico. Il Secolo l'ha qualificata come una "svolta di Avvenire...che oggi ha aperto il dibattito su sacerdozio e omosessualità" ; Avvenire non ci sta.
Di seguito per completezza vi posto alcuni stralci del magistero che ben sintetizzano la posizione del magistero della Chiesa e gli articoli dei tre quotidiani coinvolti (Avvenire, Repubblica e Secolo XIX).
MIO COMMENTO: chi è causa del suo mal pianga se stesso! Avvenire ha una lunga tradizione in cui non da conto di posizioni nella Chiesa diverse da quelle ufficiali o, peggio, ufficiose, soprattutto sui temi più scottanti. Si tratta in sostanza di un giornale che tende a presentre il cattolicesimo come un granitico monolite: cosa che non è!
Gli esempi sono numerosi ed è logico che ove Avvenire decida di dar conto, con una onestà intelletuale da riconoscergli, di posizioni diverse, questo fatto diventi una notizia da prima pagina.
Il Secolo XIX ha correttamente parlato di "svolta di Avvenire che ha aperto un dibattito", non di "svolta della Chiesa"!!!! Non era questo l'intento di Avvenire quando ha scelto di pubblicare l'articolo di Andreoli?! Quello di aprire un "dibattito"?! Almeno questo pare dalla logica concatenazione delle parole usate da Boffo per introburre l'intervento di Andreoli!
Era normale poi che giornali di tendenze diverse provassero a cavalcare l'onda, come ha fatto il Secolo XIX. D'altra parte in nessun passaggio dei commenti pare di vedere attribuita ad Avvenire una posizione su omosessualità e sacerdozio diversa da quella della Chiesa.
La scomposta reazione di giornale della CEI e del suo direttore (che, si badi, aspetta un giorno per replicare!?...perchè?) lascia pensare molto.
Avvenire pensava che aprendo il dibattito, l'insegnamento del magistero sarebbe restato intoccabile e "rispettato"?!
D'altra parte occorre anche riflettere su cosa intenda Boffo per "rispetto dell’impostazione che la Chiesa cattolica ha dato al problema dell’omosessualità al suo interno": se questo si appalesa nel non entrare nella questione di merito, come ha fatto Andreoli, siamo al paradosso per cui "io posso discettare di tutto-tu non puoi parlare in casa mia". Questo è vero doppiopesismo!
O Boffo pensava che il dibattito per essere costruttivo "deve costruire" un'opinione condivisa che coincida con le proprie posizioni di partenza?!
Giustamente rileva Vaccari, direttore del Secolo: "Piaccia o no a Boffo (ed evidentemente non gli piace), aprire un dibattito non significa, come lui ridicolmente sostiene, affermare che Avvenire e tantomeno la gerarchia cattolica hanno dato il "via libera a tutti". Pretenderlo significa banalizzare la lingua italiana, prima ancora che manipolare il pensiero degli altri."
Sottolineo naturalmente che io condivido l'impostazione del magistero e reputo saggio non ammettere al sacerdozio chi pratichi atti omosessuali come il padre intervistato dal Secolo XIX, tuttavia sono conscio che tanti cattolici, laici e sacerdoti, non reputano l'omosessualità una malattia da curare ovvero una forma di immaturità psicologica, ben sapendo che ciò naturalmente non comporta una giustificazione morale degli atti omosessuali.
Proprio su questo tema, tenuto conto della necessaria attenzione da prestare all'autorevole insegnamento del magistero, per il cattolico, di fronte ai progressi della scienza medica e psichiatrica vale la vecchia massima di Sant'Agostino: "In necessariis unitas, in dubiis libertas , in omnibus caritas”
D'altra parte lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica ritiene che "La sua genesi psichica ( dell'omosessualità) rimane in gran parte inspiegabile" (ccc 2357).
E' proprio su questo punto di merito che si apre il "caso serio" del laicato cattolico italiano: a cosa serve questa ansia da accerchiamento, questo voler per forza presentare la posizione cattolica come la migliore possibile, come un monolite, come quella che legge sempre al meglio la realtà, come l'unica portatrice dei valori veri? a cosa serve questa pretesa di essere esenti da critiche?
Sottilmente inoltre si potrebbe ben osservare come Avvenire scelga di "aprire il dibattito", dando la voce su questi temi proprio ad un non credente come il prof. Andreoli, negando implicitamente che qualche cattolico possa ritenere di mettersi in gioco su questi temi.
In un recente libro ("Chiesa padrona"....leggetelo e non lasciatevi ingannare dal titolo!) Roberto Beretta, giornalista proprio di Avvenire (particolare che lascia capire che il giornale ha più voci non tutte trattate allo stesso modo), stigmatizzava proprio quest'atteggiamento che definisce giustamente"clericale".
Mi si dirà che tutti i giornali utilizzano in modo più o meno velato gli stessi metodi di Avvenire, tuttavia mi si permetta di ricordare a tutti inter-ecclesia la massima evangelica: "Non così dovrà essere tra voi" (Mt 20, 26)
Dal documento "Persona humana" - 1975
Relazioni omosessuali
8. Ai nostri giorni, contro l’insegnamento costante del magistero e il senso morale del popolo cristiano, alcuni, fondandosi su osservazioni di ordine psicologico, hanno cominciato a giudicare con indulgenza, anzi a scusare del tutto, le relazioni omosessuali presso certi soggetti. Essi distinguono - e sembra non senza motivo - tra gli omosessuali la cui tendenza, derivando da falsa educazione, da mancanza di evoluzione sessuale normale, da abitudine contratta, da cattivi esempi o da altre cause analoghe, è transitoria o, almeno, non incurabile, e gli omosessuali che sono definitivamente tali per una specie di istinto innato o di costituzione patologica, giudicata incurabile.
Ora, per ciò che riguarda i soggetti di questa seconda categoria, alcuni concludono che la loro tendenza è a tal punto naturale da dover ritenere che essa giustifichi, in loro, relazioni omosessuali in una sincera comunione di vita e di amore, analoga al matrimonio, in quanto essi si sentono incapaci di sopportare una vita solitaria.
Certo, nell'azione pastorale, questi omosessuali devono essere accolti con comprensione e sostenuti nella speranza di superare le loro difficoltà personali e il loro disadattamento sociale. La loro colpevolezza sarà giudicata con prudenza; ma non può essere usato nessun metodo pastorale che, ritenendo questi atti conformi alla condizione di quelle persone, accordi loro una giustificazione morale. Secondo l'ordine morale oggettivo, le relazioni omosessuali sono atti privi della loro regola essenziale e indispensabile. Esse sono condannate nella sacra Scrittura come gravi depravazioni e presentate, anzi, come la funesta conseguenza di un rifiuto di Dio.(14) Questo giudizio della Scrittura non permette di concludere che tutti coloro, i quali soffrono di questa anomalia, ne siano personalmente responsabili, ma esso attesta che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e che, in nessun caso, possono ricevere una qualche approvazione.
dal Catechismo Chiesa Cattolica - 1992
Castità e omosessualità
2357 L'omosessualità designa le relazioni tra uomini o donne che provano un'attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del medesimo sesso. Si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e nelle differenti culture. La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, 238 la Tradizione ha sempre dichiarato che « gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati ». 239 Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.
2358 Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.
2359 Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un'amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana.
Dall'Istruzione della Congregazione per l'Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri - 2005
2. L’omosessualità e il ministero ordinato
Dal Concilio Vaticano II ad oggi, diversi documenti del Magistero – e specialmente il Catechismo della Chiesa Cattolica – hanno confermato l’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità. Il Catechismo distingue fra gli atti omosessuali e le tendenze omosessuali.
Riguardo agli atti, insegna che, nella Sacra Scrittura, essi vengono presentati come peccati gravi. La Tradizione li ha costantemente considerati come intrinsecamente immorali e contrari alla legge naturale. Essi, di conseguenza, non possono essere approvati in nessun caso.
Per quanto concerne le tendenze omosessuali profondamente radicate, che si riscontrano in un certo numero di uomini e donne, sono anch'esse oggettivamente disordinate e sovente costituiscono, anche per loro, una prova. Tali persone devono essere accolte con rispetto e delicatezza; a loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Esse sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita e a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare.
Alla luce di tale insegnamento, questo Dicastero, d'intesa con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ritiene necessario affermare chiaramente che la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay.
Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne. Non sono affatto da trascurare le conseguenze negative che possono derivare dall'Ordinazione di persone con tendenze omosessuali profondamente radicate.
Qualora, invece, si trattasse di tendenze omosessuali che fossero solo l'espressione di un problema transitorio, come, ad esempio, quello di un'adolescenza non ancora compiuta, esse devono comunque essere chiaramente superate almeno tre anni prima dell'Ordinazione diaconale.
DAGLI ORIENTAMENTI PER L'UTILIZZO DELLE COMPETENZE PSICOLOGICHE NELL'AMMISSIONE E NELLA FORMAZIONE DEI CANDIDATI AL SACERDOZIO - 2008
10. Il cammino formativo dovrà essere interrotto nel caso in cui il candidato, nonostante il suo impegno, il sostegno dello psicologo o la psicoterapia, continuasse a manifestare incapacità ad affrontare realisticamente, sia pure con la gradualità di ogni crescita umana, le proprie gravi immaturità (forti dipendenze affettive, notevole mancanza di libertà nelle relazioni, eccessiva rigidità di carattere, mancanza di lealtà, identità sessuale incerta, tendenze omosessuali fortemente radicate, ecc.).
AVVENIRE- REPUBBLICA-SECOLO XIX
avvenire 07/01/2009
Confronto senza superficialità
Il sacerdote « nei casi estremi » : già il lessico scelto per presentare queste ultime puntate del nostro viaggio intende non lasciar spazio alla casualità o alla superficialità dell’approccio. Un consiglio che vale in particolare per la puntata odierna, in cui si affronta il caso del sacerdote che ad un certo punto scopre in sé la tendenza omossessuale. Un argomento che talora è motivo anche di invenzioni maliziose o di battute becere. In realtà, quando si tratta di situazioni vere, esse sono anche molto delicate, e il professor Andreoli ne tratta qui da par suo, ossia con la professionalità che ha maturato in lunghi anni di mestiere. Egli non nasconde neppure il punto di vista da cui muove il suo argomentare, affidato anch’esso alla nostra riflessione libera ed eventualmente ad un dibattito costruttivo.
( db)
I preti e noi
48| CONTINUA IL VIAGGIO DI ANDREOLI ALLA SCOPERTA DEI PRETI
Il sacerdote nei casi estremi: l’omosessualità
Nel 1992 l’omosessualità veniva cancellata da quel Registro delle Malattie che è redatto dall’Organizzazione mondiale della Sanità, e del quale ogni quattro anni si fa una revisione, in vista di un aggiornamento. In precedenza, l’omosessualità era inclusa tra le malattie, e da allora non vi figura più, venendo scientificamente considerata invece « una caratteristica della personalità » . Come tale non rientra più né in una diagnosi né in una cura medica. Io sono un medico e uno psichiatra, e anche da questo solo punto di vista non considero l’omosessualità una malattia; seppure non posso dimenticare che prima di quella data c’erano schemi di cura sia organica ( per la modificazione cioè dei parametri biochimici) sia psicoterapica. E neppure posso dimenticare che non pochi di quei cosiddetti malati venivano ricoverati addirittura in manicomio: ricordo ancora le cartelle cliniche con indicata la diagnosi di omosessualità. È appena il caso tuttavia di segnalare che qui ci stiamo riferendo a quello che comunemente viene chiamato orientamento omosessuale, che è connesso alla persona, prima dunque che essa si esplichi in determinati comportamenti. So bene che la ' pratica' omosessuale investe anche altri ambiti di competenza, ad esempio quella della teologia morale, sulla quale tuttavia io non entro, per il rispetto che porto alla materia. Ogni lettore peraltro ha sotto il profilo morale un suo quadro di riferimento, che pure rispetto. Nel mio discorso svolgo un ragionamento che si pone sul versante di una competenza scientifica, per la quale le manifestazioni e i comportamenti che scaturiscono dall’omosessualità non sono patologie ma variabili all’interno di quella che si chiama normalità, pur se questa è difficile da definire. Mi pare si possa dire anche che l’omosessualità è una diversità, seppure la persona omosessuale non è definibile solo rispetto ad una propensione sessuale: egli è connotato da un insieme più ampio di caratteristiche e di abilità. Sarebbe insomma un errore circoscrivere e qualificare un uomo per l’uso di un suo organo, come altrettanto stravagante sarebbe ridurre tutte le variazione dell’eterosessuale a questo solo comportamento. So che sull’argomento si potrebbe aprire una discussione infinita, confesso però che come membro di una comunità scientifica non posso arrogarmi un diritto definitorio, che nel suo ambito spetta alla scienza, a cui partecipo come scienziato, senza tuttavia poterla rappresentare. Non a caso questa attività – mia e dei miei colleghi – è disciplinata anche dall’Ordine dei medici, e non ha molto senso che un singolo emetta ' diagnosi' se la scienza ha appurato che di altro si tratta. Questa mia posizione ovviamente non impedisce che ne esistano altre, che attribuiscono all’omosessualità un significato differente. Approdi, questi, che io reputo un errore ma che non mi sogno di negare. Quanto dicevo prima non significa però che l’omosessualità possa ridursi a qualcosa di irrilevante. E faccio un esempio. Fino al 1992 il regolamento che normava il Servizio militare di leva, allora obbligatorio, prevedeva l’esclusione dell’omosessuale come persona non idonea al servizio stesso. Questo comma decadde, e ricordo che ci fu una commissione – incaricata di rivedere la faccenda – a cui anch’io partecipai. L’esclusione non poteva più essere motivata su quella base, ma avrebbe potuto essere argomentata in forza delle caratteristiche che sono richieste per quel dato servizio. Appare infatti del tutto legittimo che una forza armata cui sono demandati determinati compiti, scelga – specie oggi che il servizio è volontario – gli aspiranti che lasciano prevedere di saper realizzare, al meglio e senza fatica, il compito richiesto. Su un piano forse fin troppo pragmatico taluno arriva a dire che un ragionamento simile potrebbe valere anche nelle scelte che la Chiesa deve fare circa il proprio personale. Chi le impedisce infatti di riscontrare che determinate caratteristiche mettono l’aspirante al sacerdozio in particolare difficoltà, e per questo di decidere che l’omosessuale non verrà ammesso? Su una simile base, molto concreta e operativa, avviene in fondo per ogni ricerca di personale, e persino nella selezione dei grandi cervelli da indirizzare ai vari campi del sapere. C’è chi ha una propensione straordinaria per il mondo del digitale, e chi invece fatica moltissimo anche solo avvicinarvisi. Va da sé che il secondo non lo manderei mai in una Sillicon Valley. Voglio dire che non mi scandalizzo se un’organizzazione, come in fondo è la Chiesa, decide di escludere dal sacerdozio ministeriale l’omosessuale. Date le mie convinzioni, potrei scandalizzarmi se lo ritenesse un malato, ma non certo se essa si dà dei criteri per la selezione del proprio personale. nche se questo lascia, a mio avviso, aperta la questione sul perché debbano essere per forza escluse oggi dalla vita sacerdotale le persone di orientamento omosessuale. Riconosco che è un argomento difficile, almeno per me, e – ripeto – ho rispetto per la Chiesa, che in questo campo fa valere un criterio di somma prudenza. Benché qui continuiamo a tenerci lontani da quell’esercizio anomalo della sessualità esercitata senza consenso, e magari su un incapace, e che la legge stessa punisce comunque come abuso e violenza, sia che si tratti di omosessualità che di eterosessualità. In ragione della mia professione, qualche prete omosessuale l’ho conosciuto: o che desiderava superare da questa tendenza comportamentale, o che – casto – voleva saper contenere l’urgenza che gli si presentava. Posso solo dire che in genere si è trattato di persone provate dal confronto tra la loro personale inclinazione e una vocazione, quella del prete, che ti induce ad ascoltare gli altri, ACe a mettere sé in secondo piano così che sia Dio in quel rapporto a prevalere. Erano cioè persone non prive di un desiderio di autenticità, ma che certo sentivano e vivevano drammaticamente la loro fragilità. he poi è una fragilità che il costume vigente bolla in modo marcato. La sensibilità popolare infatti ha in genere una reazione differenziata di fronte a uno scandalo eterosessuale oppure omosessuale, nel senso che considera un male minore per un prete la relazione con una donna piuttosto che con un uomo. E questo lo si può capire, seppure in ultima istanza non è in alcun caso l’argomento forte per la deterrenza. In primo luogo, infatti, contano la serietà e la lealtà con cui ciascuno affronta il proprio progetto di vita. E poi non dimentichiamo che ci sono contesti geografici e ambientali in cui i costumi cambiano, e cambia anche la sensibilità prevalente. E dunque, non è su questa che ci si può basare per impostare una strategia correttiva. Ripeto, nel discorso vocazionale deve contare soprattutto la coerenza con il messaggio che si annuncia perché questa sola rende testimoni credibili. Va da sé, ma lo diremo ancor meglio nella Ptappa successiva, che l’omosessualità si distanzia anni luce dalla pedofilia: questa infatti, per la medicina, rientra clinicamente tra le malattie sessuali, legate alla difformità dell’' oggetto' di attrazione. E anche dal punto di vista sociale la pedofilia resta un delitto avvertito come abominevole, in quanto non solo non rispetta l’altro, più piccolo, ma lo violenta in una fase per di più delicatissima della sua esistenza. Nella tappa odierna ho inteso portare in scena una visione dell’omosessualità che non è più quella degli stereotipi culturali di un tempo. Occorre stare attenti infatti a non infliggere stigmi non solo intollerabili ma anche falsi. C’è un’evoluzione culturale in atto che, acquisendo i portati della scienza, può oggi presentare l’omosessualità entro uno schema diverso da ieri. Tra l’altro, si deve sempre stare attenti al carico di sofferenza inutile che si mette sulle spalle delle persone, senza che abbiano colpe particolari. Non per questo tuttavia si deve arrivare a valutazioni di irrilevanza o a nuovi e opposti eccessi, ad esempio sul piano di una femminilizzazione del costume. E per ciò occorre stare attenti a che nei processi educativi siano sempre chiari i parametri di riferimento. er quanti poi si incamminano nella strada che porta al sacerdozio è importante svolgere un sapiente discernimento, che non disdegni all’occorrenza le competenze professionali. Torno a ripetere qualcosa che già dissi all’inizio di questo viaggio, e cioè che non bisogna aver paura di rivolgersi agli esperti di psicologia. Meglio una disamina chiara dei problemi che ci sono oggi che un fallimento domani. Ovvio che non intenda con queste affermazioni mettermi neppure lontanamente in conflitto con le determinazioni del magistero, sia per quel che concerne la conduzione delle comunità educative particolari che sono i seminari, sia – ancor prima – per quanto riguarda l’impostazione della dottrina morale. Che va presentata e offerta alle persone come una pista di crescita nell’autenticità e nel rispetto di sé e degli altri. Arrivato al termine di questa puntata, non posso tuttavia esimermi dall’inviare un pensiero di riguardo ai sacerdoti che si sono scoperti omosessuali, e che in questa declinazione affettiva soffrono per restare fedeli alla loro vocazione: a costoro vorrei dire – io non credente – di rivolgersi a Dio per chiedergli l’aiuto a far sì che anche questa ' caratteristica' diventi una ricchezza a servizio della missione cui stanno dedicando la loro vita. |
SECOLO XIX DEL 08.01.2009
«Ecco la mia vita di sacerdote gay» La testimonianza
Prete ligure rompe il tabù dopo la svolta di Avvenire
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Genova. «Come vive la propria omosessualità un prete come me? Con molta serenità». Padre Felice, 50 anni, parroco in un Comune della Liguria, parla con il tono leggero di chi questa «serenità» non soltanto la vive davvero, ma la trasmette pure agli altri. Anche perché se l'è conquistata a caro prezzo. Con anni di tormenti, iniziati da adolescente. E poi in seminario, dove confida di aver «avuto la fortuna di una relazione con un altro seminarista». Una bella storia d'amore, «poetica, durata a lungo: per 15 anni». Ma che non gli ha risparmiato riflessioni interminabili e molto critiche. Sia verso se stesso, sia verso la Chiesa. Oggi che anche il quotidiano dei vescovi Avvenire ha aperto il dibattito su sacerdozio e omosessualità, padre Felice può rivelare tranquillamente di essere un prete gay. |
«Sì, sono gay come molte altre persone all'interno della Chiesa, sebbene non tutte si manifestino». Appunto. Molti religiosi - preti e suore - sono omosessuali. Ma difficilmente ne parlano. Tantomeno in pubblico. Invece Italo, come si chiamava padre Felice nel mondo laico, quando ancora abitava in Lombardia con la famiglia, non soltanto ne parla, ma lo fa con estrema naturalezza. Conferma padre Felice: «Per vivere l'omosessualità con serenità occorre accettare se stessi. E mettere un filtro alla dinamica della gerarchia ecclesiastica e omofobica».
Padre, non è che qui parte una sospensione a divinis?
«All'inizio, vivi con terrore. Nascondendolo a te stesso. Poi capisci che devi accettarti, facendo un cammino di maturazione affettiva. Un cammino che di solito viene negato. Basta leggersi "Il diario di un curato di campagna" di George Bernanos per capire che cosa prova il classico pretino schiacciato».
Quando ha realizzato di essere gay?
Da ragazzino, si percepisce. In seminario, si realizza pienamente. Verso i vent'anni, si arriva all'accettazione».
Di nascosto? Pregando e macerandosi?
«Ho avuto la fortuna di una relazione con un altro seminarista. Era tutto molto poetico. Si hanno vent'anni. E tutta l'incoerenza dei vent'anni. Ma con la speranza data dalle aperture del Concilio. Così almeno si pensava allora. Perché poi è arrivata la Restaurazione. Ma la Chiesa non è una compagnia militare. È una comunione di più voci. Di più anime».
Quant'è durata la storia in seminario?
«Quindici anni. Anche lui è diventato prete. Poi ci siamo lasciati. L'amicizia è rimasta. Ora è missionario in Centro America».
Lei è così tranquillo...
«Guardi che conosco molti preti omosessuali, molto tranquilli e altrettanto sereni. Diverso è il caso di quelli che rifiutano di accettarlo e di accettarsi. Sono i primi a scagliarsi...».
Lei è single?
«Ho una storia da sei mesi. Con un coetaneo. Prete? No, pure lui single».
Scusi, padre, e la comunità?
«Non tutti sanno tutto. Mica siamo a un reality. Però chi sa accetta. E non ha problemi. Anzi, proprio per questo sono diventato un punto di riferimento per chi ha problemi d'amore. No, non soltanto gay. Anzi. Direi che si rivolgono a me i ragazzi etero. Sanno che posso comprenderli».
Scusi, ma la castità?
«Bella domanda. Soltanto i monaci e i frati fanno voto di castità sul modello greco di perfezione. Noi preti facciamo promessa di celibato».
Ossia?
«In realtàè frutto di un diktat della Chiesa del 1200, decisa a evitare che i patrimoni finissero alle famiglie dei religiosi. In realtà, non c'è mai stato obbligo di celibato. Tant'è che non esiste nelle altre religioni. E fino al 1200 neppure per noi. Francamente, penso che il fatto di vivere da soli non faccia maturare. Non ti fa preoccupare dell'altro».
Come dire che senza un partner e dei figli non si possono comprendere gli affanni quotidiani dei fedeli?
«Concordo. Ma sempre più la famiglia etero viene usata come scudo contro gli omosessuali. È la tragedia del nostro tempo. Che esiste solo da noi. Non in Africa, per esempio. La vita celibataria nelle Missioni non esiste. È importante, però, non farlo sapere. È il gap tra realtà e gerarchie ecclesiastiche. Che all'inizio tutelavano i patrimoni, ora disprezzano la sessualità. A parole. Nell'ipocrisia cattolica, basta non farlo sapere».
Invece lei fa coming out. È innamorato?
«Sì, felicemente. Da sei mesi. Una cosa molto serena».
Chi ha fatto il primo passo?
«Direi lui, eravamo in vacanza. Abbiamo iniziato parlando molto. Ci incontravamo».
E ora quando vi vedete? Nel fine settimana?
«Veramente, sabato e domenica io non posso... - ride - Ma nei giorni feriali, stiamo insieme».
Allora, auguri.
«Grazie di cuore».
Patrizia Albanese
albanese@ilsecoloxix.it
REPUBBLICA 08.01.2009
'Preti omosessuali, cada il tabù'
Repubblica — 08 gennaio 2009 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
Smettere di considerare l' omosessualità come una malattia. Lo scrive su "Avvenire" lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, invitando i lettori cattolici a fare i conti con l' evoluzione culturale e scientifica e a capire che l' omosessualità non risponde più a vecchi stereotipi. Ma Andreoli va anche più in là. Pur sottolineando di non entrare minimamente nella questione del diritto della Chiesa di selezionare il clero secondo propri criteri, lo psichiatra mette nero su bianco: «Questo lascia aperta la questione sul perché debbano essere per forza oggi escluse dalla vita sacerdotale le persone di orientamento omosessuale». Andreoli sta svolgendo sul giornale dei vescovi un' inchiesta sui preti che ha già raggiunto le quarantotto puntate. E l' articolo su «Il sacerdote nei casi estremi: l' omosessualità» è introdotto con tutti i crismi dal direttore Dino Boffo, che rende omaggio alla sua professionalità, spiegando che il suo argomentare «è affidato alla nostra riflessione libera e ad un dibattito costruttivo». In effetti l' intervento cade come un sasso nello stagno, mentre da anni la gerarchia ecclesiastica batte sul tasto dell' omosessualità come peccato orribile da non assolvere se si vive stabilmente con un partner gay, come «grave disordine morale» e causa di non ammissione all' ordinazione secondo quanto ribadito recentemente da un' Istruzione vaticana. Leggere sull' "Avvenire" che sul piano scientifico «le manifestazioni e i comportamenti che scaturiscono dall' omosessualità non sono patologie, ma variabili all' interno di quella che si chiama normalità, pur se questa è difficile da definire», è un piccolo terremoto. Un «fatto importante» dicono a "Repubblica" tre persone di orientamento del tutto differente: il professor Tonino Cantelmi, presidente dell' Associazione psicologi e psichiatri cattolici, Franco Grillini già presidente dell' Arcigay, Gianni Geraci del gruppo omosessuale cattolico milanese «Il Guado». Per il professor Cantelmi affrontare il tema «è positivo». Fermo restando che tocca alla Chiesa l' aspetto morale e spirituale, Cantelmi sottolinea da psichiatra cattolico che «noi ci adeguiamo ai convincimenti della comunità scientifica e comunque la scelta dell' "Avvenire" dimostra che la Chiesa non ha un atteggiamento discriminatorio verso i gay». Più colorito Grillini: «è bene che nella tana del lupo (l' "Avvenire") si leggano cose di buon senso. In America un dirigente dell' associazione Exodus, che organizzava corsi di pseudoguarigione dall' omosessualità, ha dovuto chiedere scusa all' opinione pubblica gay». Gianni Geraci, che per anni ha animato il coordinamento dei gay cattolici italiani, trova «interessantissimo» che sul giornale dei vescovi si manifesti attenzione a «discorsi scientificamente fondati», respingendo la tendenza di certi movimenti carismatici a voler guarire gli omosessuali. Andreoli preannuncia un approfondimento. Il suo approccio iniziale è stato estremamente soft. Parla di «orientamento omosessuale» e non di pratica. Ribadisce: «Non mi scandalizzo se un' organizzazione come la Chiesa decide di escludere dal sacerdozio ministeriale l' omosessuale». Ma le sue conclusioni lasciano il segno. Ai sacerdoti scopertisi omosessuali e che soffrono per restare fedeli alla loro vocazione (in castità) «vorrei dire - io non credente - di rivolgersi a Dio e chiedergli l' aiuto che anche questa caratteristica diventi una ricchezza al servizio della missione». - MARCO POLITI
repubblica 09.01.2009
Preti gay, per i fedeli non è più tabù
Repubblica — 09 gennaio 2009 pagina 23 sezione: CRONACA
Aprire la discussione su omosessualità e preti gay sulle pagine dell' Avvenire è stato come una scossa culturale, che sta attraversando l' opinione pubblica cattolica. Il giorno dopo il direttore Dino Boffo commenta sereno: «Ci è parso normale parlarne nei termini civili e documentati come ha fatto il professore Andreoli. Ho condiviso la sua intenzione di toccare anche situazioni dolorose e casi estremi». Però, precisa Boffo, l' articolo va inquadrato in un reportage di quarantotto puntate che sta affrontando tutti gli aspetti del sacerdozio: dai problemi in seminario ai rapporti tra clero e politica, dai preti operai ai sacerdoti presenti nei mass media. Di fatto lo psichiatra - ponendo la questione del rapporto tra vocazione ed omosessualità - ha sfiorato la punta di un iceberg, che rimanda ad una realtà molto più sviluppata di quanto siano pronte ad ammettere le autorità ecclesiastiche. «Tranne casi di disperazione e di grande tormento interiore - commenta un prete omosessuale romano - una parte consistente del clero gay non si considera minimamente malata e c' è una giovane generazione che vive la propria vita senza paura di rappresaglie». Può anche accadere, spiega a Repubblica un sacerdote gay del settentrione, che un prete lo dica al proprio vescovo e non accada nulla, perché le autorità hanno soprattutto paura dello scandalo. «Io l' ho fatto e poi ho lasciato il mio ministero - racconta - ma ho rifiutato di firmare una lettera di richiesta di riduzione allo stato laicale. E non è stato aperto nessun procedimento canonico contro di me. Ufficialmente sono ancora prete». Don Domenico Pezzini, professore emerito di Letteratura inglese medievale, fondatore e animatore di gruppi cattolici omosessuali, ritiene che vi siano parecchi preti gay che «vivono ormai serenamente la loro condizione e per i quali non ha più nemmeno importanza come si pronuncia l' istituzione ecclesiastica. Chi rimane nel ministero, che sia etero oppure omosessuale, ha la stessa fatica nel gestire il celibato e se incontra difficoltà le affronta a misura della sua saggezza e percezione di sé». Quanto ai credenti gay, afferma, c' è chi fa il sagrestano, l' organista, il cerimoniere o il membro del consiglio parrocchiale e il parroco lo sa e non obietta. Nelle parrocchie, peraltro, l' atteggiamento dei fedeli è diventato in genere molto più aperto. Toccherebbe all' episcopato, semmai, mandare finalmente un messaggio più «inclusivo» invece di ripetere tanti no. Anche per padre Bartolomeo Sorge, gesuita, direttore della rivista Aggiornamenti Sociali, non bisogna avere nessuna paura di sviluppare una ricerca seria su temi che pongono anche interrogativi nuovi. Resta la domanda, soggiunge, se la massa dei fedeli sia pronta a recepire tutto. Perciò «ci vuole prudenza nella divulgazione». (m. pol.)
avvenire 10.01.2009
AL SECOLO XIX STUFI DELLA GUERRA LA BUTTANO SUI PRETI
SE NEI GIORNALI GIOCANO SU CIÒ CHE PER TUTTI È COSA SERIA
« Oggi che anche il quotidiano dei vescovi Avvenire ha aperto il dibattito su sacerdozio e omosessualità, padre Felice può rivelare tranquillamente di essere un prete gay»: con questo incipit, abbastanza allucinante, collocato niente meno che in prima pagina, Il Secolo XIX ha introdotto ieri a caratteri cubitali, quasi non ci fossero notizie del giorno più importanti, la testimonianza – vera? inventata? – di un sacerdote che racconta le sue vicissitudini sul fronte della castità, dimensione connaturale al ministero che egli esercita. Nel catenaccio del titolone di testata, il giornale ligure giustifica un’attenzione così generosa alle scelte singolari del sacerdote col fatto che la presunta confidenza veniva «dopo la svolta di Avvenire ». Svolta? Ma quale svolta, signori? Ora, ciascuno può inventare le confessioni che crede (e i lettori diffidino delle interviste anonime), e ogni direttore di giornale può mettere in pagina il menù editoriale che ritiene più confacente alla propria impostazione culturale e a quelli che è convinto, spesso a torto, siano i gusti dei lettori. Ciò che, per regole di civiltà, non sarebbe consentito è strumentalizzare altri, è appoggiarsi artatamente «a terzi » per sostenere le proprie battaglie ideologiche e anticlericali.
La puntata numero 48 del «viaggio attorno al prete» del professor Vittorino Andreoli, pubblicata su Avvenire di mercoledì 7 gennaio, era impeccabile quanto a equilibrio e rispetto dell’impostazione che la Chiesa cattolica ha dato al problema dell’omosessualità al suo interno. Semplicemente non c’erano, nel lessico pur franco dello psicanalista Andreoli, accenti di inutile crudeltà. Ebbene, approfittare di questo, per attribuire al giornale cattolico il contrario di quanto normalmente sostiene e di ciò che ha argomentato anche nella presente circostanza, è un’operazione indegna. Verrebbe da dire squallida, e che richiama – per l’intreccio tra elementi biografici e surreale linea «politica» – i vizi della propaganda in voga nei regimi oscuri di altre epoche. Meglio: è un’ulteriore prova del banalismo e della superficialità arrogante che circolano oggi in talune imprese editoriali. E poi chiedono una Chiesa meno assediata: meriterebbero solo il mite sorriso dell’indifferenza. Anche dei lettori. (db)
Ps. 1. Qualcosa di analogo, seppure con stilemi meno paradossali, si è letto ieri anche sul quotidiano la Repubblica: ovvio che valgano per il giornale diretto da Ezio Mauro le considerazioni sopra formulate, con qualcosa in più, proporzionato al peso di questa testata nell’opinione pubblica nazionale, e al ruolo – giusto? esagerato? – di pivot ad essa assegnato dalle testate minori e da tanti giornalisti complessati che circolano nelle piccole redazioni.
Ps. 2. Sempre ieri, un’altra perla: su un’agenzia gossipara veniva sparata una serie di cavolate immense, e senza alcunissimo fondamento, sul conto di un regista, Pupi Avati, meritevole invece della miglior stima e con il quale noi, a Sat2000, collaboriamo con grande soddisfazione.Collaboriamo e collaboreremo.
Andreoli, i sacerdoti, l’omosessualità Il direttore risponde
Caro Direttore, l’imprudenza è sempre una cattiva consigliera e imprudente è spesso il Secolo XIX, anche ieri quando, in prima pagina, riportava nel titolo di apertura un’intervista stravagante. 'Ecco la mia vita di sacerdote gay: un prete ligure rompe il tabù dopo la svolta di Avvenire'. Quale l’errore? Aver fatto non informazione sui fatti ma disinformazione e deformazione della verità. Leggendo l’intervista a un certo padre Felice si aveva come l’impressione che si volesse far passare per normale e accettabile il rapporto di coppia che un parroco dichiara di avere da sei mesi con un coetaneo. Quel parroco si giustifica col fatto che nelle promesse sacerdotali c’è l’impegno al celibato e non la promessa di castità. Che lo dichiari Padre Felice ci interessa ben poco, avrà lui a che fare con la sua coscienza, a tu per tu con Dio. Ma per noi che leggiamo sembra che il quotidiano ligure voglia far passare per normale una relazione sessuale durante il ministero sacerdotale. Perché, è bene ricordarlo, il religioso in questione si dichiara omosessuale sin da ragazzino, e siccome «per vivere l’omosessualità con serenità bisogna accettare se stessi, e mettere un filtro alla dinamica delle gerarchie ecclesiastica», allora passi pure che, durante la formazione, il 'nostro' abbia già avuto una storia omosessuale durata 15 anni. Ciò che fa disinformazione è proprio il creare ambiguità su questa situazione e far passare per normale ciò che non lo è. Non mi riferisco alle persone che si scoprono omosessuali. Tutti hanno caratteristiche che devono essere accolte e valorizzate nell’ambito del progetto che Dio ha su ciascuno. Ma, come riportava lo psichiatra Andreoli nel testo che ha fatto scatenare la polemica, non tutti vanno bene per lavorare nella Silicon Valley e non tutti sono idonei al servizio militare. Alcuni, quindi, potrebbero non essere adatti ad una vita consacrata. Il quotidiano ligure avrebbe dovuto ricordarsi che per la Chiesa ogni persona (sposata o no) è tenuta alla castità. Il celibato è motivato soprattutto dalla consacrazione a Cristo con 'cuore indiviso'. Di conseguenza, pur essendo giuridicamente configurati in modo diverso castità (come voto religioso) e celibato sacerdotale, da un punto di vista spirituale ed umano si equivalgono. Questi sono i principi della Chiesa cattolica e chi si riconosce nella Chiesa non può non accettarli. L’argomentare di Padre Felice è privo di fondamento. Si aggiunga che l’uso della sessualità al di fuori del matrimonio per la dottrina della Chiesa è interdetto, a maggior ragione per un consacrato e per giunta in contesto omosessuale. Se infine si vuol far passare questo intricato groviglio come qualcosa che sta in sintonia con questo o quell’articolo di Avvenire, mi pare proprio che si sia fuori di testa. Eraldo Ciangherotti, Albenga (Sv) Il punto, come chiarisco anche in prima pagina, è che nulla nell’articolata riflessione del professor Andreoli autorizza le illazioni sparate in prima pagina dal Secolo XIX – ma questo 'padre Felice' esisterà poi davvero o è un’invenzione giornalistica? – e le strumentalizzazioni compiute anche da Repubblica. Dubito persino che chi ha messo in piedi e confezionato quelle pagine si sia preso la briga di leggere completamente e con disincanto quanto messo nero su bianco dall’illustre psichiatra veronese, nostro apprezzato collaboratore. Nulla è cambiato nella posizione della Chiesa in relazione al tema dell’omosessualità e al rapporto tra questa condizione e il ministero sacerdotale. Quasi al termine di un lungo tragitto che per un anno ha affrontato settimanalmente un aspetto dopo l’altro della vita dei sacerdoti di oggi – dal tempo del seminario, al prete di montagna, a quello del cimitero – nelle settimane più recenti abbiamo preso in esame le situazioni più scottanti sollevate, non di rado strumentalmente, dalla cronaca – innamoramento, scandalo, omosessualità, prossimamente pedofilia... – per guardarle come controluce e soppesarle per quel che esse comportano. Senza indulgere nello scandalismo, con sguardo limpido e sereno, avendo sempre presente che non spetta a noi giudicare le persone, ma rimanendo esigenti e schietti nell’adesione al magistero della Chiesa qual esso è, mai con la pretesa di modellarlo conformemente alle inclinazioni più gradite a questa o quella corrente. Solo che per certa, per troppa stampa la Chiesa – e Avvenire – o pronuncia anatemi, si scaglia contro, condanna inesorabilmente, oppure, giuliva, dà il 'liberi tutti'. Ma quando? Ma dove? Si può chiedere, prima della decenza, almeno un po’ di professionalità, cioè di affrontare gli argomenti con documentazione appropriata e strumenti seri. I giudizi restano liberi, ma per essere credibili devono appoggiarsi su dati di fatto attendibili – meglio, veri –: in questo caso nulla di tutto ciò. E questo, almeno i lettori di Avvenire devono saperlo. SECOLO XIX DEL 10.01.2009
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Prete gay, Tonini condanna «O cambia vita o è fuori» | la chiesa e l'omosessualità Per il cardinale i vertici dei seminari hanno responsabilità enormi | |
| genova. «Figliolo, mi metto a tua disposizione per aiutarti a riflettere su di te. Non è con la scomunica, che si salva un individuo, ma con il dialogo». A dispetto dei 94 anni compiuti a luglio, la voce del cardinale Ersilio Tonini non tradisce incertezze. È dolce quando invita al dialogo il sacerdote di un Comune della Liguria, che ha fatto coming out sulla sua omosessualità e sulla storia d'amore iniziata sei mesi fa con un coetaneo di cinquant'anni. Ma repentinamente, quella stessa voce si fa dura e tagliente quando ammonisce: «La Chiesa ha regole precise. E vanno rispettate. La gente ha diritto di avere pastori esemplari. Che siano degni rappresentanti di Cristo Signore. E l'omosessualitàè incompatibile con tutto questo». Inutile tentare di appellarsi alla Carità cristiana e all'accoglienza, predicate nel Vangelo. L'arcivescovo emerito di Ravenna è nettissimo: non possono convivere omosessualità e ministero religioso. Certo, ammette il cardinale «la scomunica non salva un individuo». A patto, però, «che si ravveda». Cioè: torni sulla retta via. Quella del sacerdozio. Che «pretende la totale castità», peraltro «giurata durante una funzione alla presenza di tutta la Comunità. Due anni prima del sacerdozio, c'è la festa solenne del Celibato». In caso contrario? Se il sacerdote ligure che ha avuto il non facile coraggio di esporsi - anziché, tacere come moltissimi altri religiosi, preti o suore - non intendesse «cambiare vita», rientrando nei binari previsti dalla Chiesa? Secondo Ersilio Tonini non ci sono che due alternative: «O cambia strada, o lascia l'abito talare. Deve comprendere che non può continuare a celebrare Messa. Con l'Eucaristia non si scherza. Se non desiste, deve smettere di celebrare». Una pausa e il cardinale emerito, con la consueta verve, sbotta: «Il vescovo deve intervenire e togliergli tutti i ministeri». Eminenza, ma quest'uomo non fa del male a nessuno... «Ma scherziamo davvero - tuona il cardinale - Come potrebbero le famiglie affidargli i propri figli? Con quale serenità?». Ma questo religioso è omosessuale, non pedofilo: c'è una bella differenza. «Le faccio un esempio: se una donna sposata va con altri uomini, il parroco ha il dovere di metterla in guardia. Quella donna non può certo fare la Comunione, dopo aver dato scandalo. Ci vuole coerenza. Il sacerdote è una paternità spirituale, che suppone un'altra vita. Ma dico - s'accalora Tonini - Come si fa, come si fa a celebrare una Messa dopo essersi abbandonati alle passioni? No. No. No. Sono preoccupato per il bene della Chiesa e per Cristo Nostro Signore, che deve avere il meglio. La Chiesa dev'essere severa. Il prete, anche per la gente, rappresenta Cristo Nostro Signore. I fedeli hanno diritto di affidare i propri figli con tranquillità a un prete». Che non è, appunto, un pedofilo, ma un omosessuale. E che ha avuto una storia d'amore iniziata in seminario e durata quindici anni». Dopo una lunga pausa, il cardinale arriva al nocciolo del problema. Una questione non da poco per le autorità ecclesiastiche: il seminario. Racconta Tonini: «Sono stato a lungo anche rettore di seminario. Ed è li che si deve agire. Lì. I vertici dei seminari hanno responsabilità enormi. Devono essere in grado di comprendere che il rischio di omosessualitàè proprio nei seminari. Quando si accorgono di tali tendenze affettive, devono dire no. Impedire che questi ragazzi vadano avanti. Cristo ha il diritto di avere rappresentanti degni. La Chiesa e i genitori hanno diritto di avere una guida sana per i figli». Dunque, fuori i gay dalla Chiesa? «Ripeto, la questione è a monte. Nei seminari - insiste il cardinale - Vanno assunte informazioni, prima dell'ordinazione. I dirigenti dei seminari devono capire». E poi? «Si dice no - replica netto Ersilio Tonini - Chi ha questa tendenza o la domina o deve fermarsi. Se non lo fa lui, va fermato da altri. Ferisce la Chiesa, i fedeli». Anche se lo accettano? «Non è possibile. La Comunità, allora, che cosa diventa? Una baldoria, non più una Chiesa». Cardinale, nessun aiuto, ma soltanto porte sbarrate ai preti omosessuali? E magari pure una scomunica? «Si fa di tutto per aiutare queste creature. Abbiamo delle Comunità dove vengono mandate a riflettere. Perché ci pensino. Perché si possano redimere». Scusi, eminenza, perché«redimere»? «La loro esigenza dà scandalo - scandisce Ersilio Tonini - Non consente di guidare i fedeli. Che hanno diritto ad avere preti sul modello di Cristo Signore». Che cosa vorrebbe dire al sacerdote ligure che con coraggio infinito ha ammesso la sua omosessualità? «Ha il dovere di dire no a se stesso. Gesù se li è scelti gli apostoli. È questa la maggiore responsabilità dei vescovi. Anche se è nei seminari che vanno fatti i controlli. Lì si devono capire le tendenze». patrizia albanese albanese@ilsecoloxixi.it | | SECOLO XIX 11.01.2009 |
Da avvenireinsulti senza argomenti |
editoriale |
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| Il 7 gennaio Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, ospita l'ennesima puntata di un viaggio lungo un anno che lo psichiatra Vittorino Andreoli ha intrapreso nella vita dei sacerdoti di oggi. Parla dell'omosessualità. Scrive che non si scandalizza "se un'organizzazione, come in fondo è la Chiesa, decide di escludere dal sacerdozio ministeriale l'omosessuale". Aggiunge che "questo, a mio avviso, lascia aperta la questione sul perché debbano essere per forza escluse oggi dalla vita sacerdotale le persone di orientamento omosessuale". Certo, si tratta di "un argomento difficile". Ma avverte di aver presentato "una visione dell'omosessualità che non è più quella degli stereotipi culturali di un tempo. (...) C'è un'evoluzione culturale in atto che (...) può oggi presentare l'omosessualità entro uno schema diverso da ieri". Conclude, il professor Andreoli, inviando "un pensiero di riguardo ai sacerdoti che si sono scoperti omosessuali, e che in questa declinazione affettiva soffrono per restare fedeli alla loro vocazione: a costoro vorrei dire - io non credente - di rivolgersi a Dio per chiedergli l'aiuto a far sì che anche questa 'caratteristica' diventi una ricchezza a servizio della missione cui stanno dedicando la loro vita". Il giorno dopo, 8 gennaio, Il Secolo XIX e la Repubblica si mettono in contatto con un sacerdote che ammette la propria omosessualità. Fa outing, come si dice. Noi decidiamo di dare l'intervista in prima pagina, la Repubblica all'interno. Perché lo facciamo? La risposta più ovvia è: perchéè una notizia.Se si vuole articolare: non è banale che un prete parli, con una serenità certamente costata sofferenza e angoscia, della propria vita sessuale. Se è stata una notizia, un po' di tempo fa, l'outing di un presentatore televisivo, a maggior ragione tale va considerato oggi quello di un sacerdote. Come lo facciamo? Nel modo meno sensazionalistico possibile (a meno che non venga ritenuto "sensazionalistico" qualsiasi titolo di prima pagina, ciò che aprirebbe improbabili scenari su questo mestiere). Il caso del sacerdote, del quale non facciamo il nome su sua richiesta, è affrontato con un garbo che si avvicina al pudore, senza punte voyeuristiche, senza la malizia di qualcuno che vuole spiare dal buco della serratura ciò che (a volte) avviene nelle canoniche e nei seminari. Anzi, correttamente, Patrizia Albanese, l'autrice dell'intervista, la inquadra nella scia dell'intervento del professor Andreoli. Non di questo parere è il direttore di Avvenire, Dino Boffo. Ieri scrive un editoriale in prima pagina dal titolo "Se i giornali giocano su ciò che per tutti è una cosa seria". Si tratta di un raro concentrato di gratuita violenza e infima volgarità nei confronti di questo giornale. A cominciare dall'occhiello: "Al Secolo XIX stufi della guerra la buttano sui preti". È francamente difficile riuscire a eguagliare tanta rozzezza in appena dieci parole. Prima di andare avanti, torniamo al titolo. Che vuol dire? Che cosa significa "giocare" e in che modo Il Secolo XIX "giocherebbe"? Speravo di capirlo andando avanti nella lettura. Ho trovato invece altro. Intanto una intollerabile forzatura: Boffo denuncia come incipit la nona frase dell'articolo, quella che chiude il "cappello" in prima pagina: è un po' come se sostenesse che l'incipit dei Promessi Sposi non è"Quel ramo del lago di Como..." ma "Il luogo stesso da dove contemplate...". Ma questo è davvero un peccato veniale (visto che mi rivolgo a un giornale cattolico) rispetto a quello che viene dopo: e cioè l'accusa che Il Secolo XIX abbia"inventato" l'intervista. Non so se Boffo si renda conto di quello che ha scritto (se no, si incaricheranno di spiegarglielo i suoi avvocati). Il modo in cui prosegue mi fa temere che abbia attraversato un momento di grave scollamento fra l'uso delle parole e il loro significato. Sostiene che "per regole di civiltà non è consentito strumentalizzare altri per sostenere le proprie battaglie ideologiche e anticlericali". Ma quali? Ma quando? Se si riferisce al fatto che Il Secolo XIX ha ritenuto l'articolo di Andreoli come un'apertura di dibattito nel mondo cattolico sul tema dell'omosessualità. Che cos'è un'apertura di dibattito su un tema da sempre tabù se non una svolta? È perfino imbarazzante ricordare a Boffo la dichiarazione da lui stesso fatta a Repubblica di ieri: "Ci è parso normale parlarne nei termini civili e documentati come ha fatto il professor Andreoli. Ho condiviso la sua intenzione di toccare anche situazioni dolorose e casi estremi". Una volta di più: che cos'è, questa, se non un'apertura di dibattito? Mentre parla in questo modo a Repubblica, Boffo scrive tutt'altro. Di "inutile crudeltà" (quale?). Di "un'operazione indegna, squallida, che richiama - per l'intreccio tra elementi biografici e surreale linea «politica»? i vizi della propaganda in voga nei regimi oscuri di altre epoche. Meglio: è un'ulteriore prova del banalismo e della superficialità arrogante che circolano oggi in talune imprese editoriali". Che cosa c'è di "squallido e indegno" nel fare un'intervista, per quanto fastidiosa possa risultare al quotidiano dei vescovi italiani? Quale sarebbe "l'intreccio tra elementi biografici e surreale linea 'politica'" (di chi, poi)? In che cosa sta la "superficialità arrogante"? Boffo non dà naturalmente nessuna risposta. Lancia accuse disarticolate. Che cosa c'entra l'anticlericalismo (ciò che Il Secolo XIX non è, sia detto di passaggio, per quanto si proclami orgogliosamente laico)? E quali sarebbero le "battaglie ideologiche" di un giornale che, per fare un solo esempio, non si è mai permesso di accusare la gerarchia cattolica di ingerenza negli affari interni dello Stato italiano, anche quando ha chiesto il cambiamento di leggi come quella sull'aborto e sulle cellule staminali, riconoscendo ad essa il diritto di sostenere ciò che ritiene più coerente rispetto alla sua dottrina? Non soddisfatto di spargere contumelie a casaccio, come qualcuno in preda ad astratti furori, Boffo non si risparmia neppure piccate lezioncine di giornalismo. Sempre ieri, nella pagina delle lettere, risponde chiedendo "prima della decenza, almeno un po' di professionalità". È discutibile, e anche un po' scellerato, il richiamo alla decenza dopo l'indecente sequela di sentenze diffamatorie inanellate in così poche righe. Ma addirittura risibile è che il direttore di Avvenire cerchi di aggrapparsi alla professionalità nella stessa occasione in cui non ha sostanziato nessuna delle sue numerosissime accuse, limitandosi ad attingere nel capace sacco di una aggressiva grossolanità. Dove avremmo mancato noi? Nel non aver rispettato la regola secondo cui "i giudizi restano liberi, ma per essere credibili devono appoggiarsi su dati di fatto attendibili - meglio, veri -: in questo caso nulla di tutto ciò". Peccato che nell'intervista al sacerdote che si dichiara omosessuale, non ci sia un solo giudizio. Piaccia o no a Boffo (ed evidentemente non gli piace), aprire un dibattito non significa, come lui ridicolmente sostiene, affermare che Avvenire e tantomeno la gerarchia cattolica hanno dato il "via libera a tutti". Pretenderlo significa banalizzare la lingua italiana, prima ancora che manipolare il pensiero degli altri. Il Secolo XIX non ha scritto che la Chiesa sia pronta ad ammettere, fra i suoi servitori, la pratica dell'omosessualità. Si è limitato a rilevare che, con l'articolo di Andreoli, ha rotto un tabù. E ha trovato un sacerdote disposto a parlare senza ipocriti infingimenti della sua condizione. Alla fine, ha solo fatto del buon giornalismo. Lanfranco Vaccari vaccari@ilsecoloxix.it AVVENIRE 11.01.2009 SE COSÌ VA IL NOSTRO GIORNALISMO, PERCHÉ STUPIRCI DI TANTE COSE? Meglio una notizia falsa ma piccante che una vera ma debole UMBERTO FOLENA A vviso ai lettori: in questo articolo, al fine di allietarvi, giocheremo con la fantasia. Affinché poi tutti possano partecipare, anche i nostri lettori della domenica, è necessario narrare l’antefatto. Mercoledì, su Avvenire, la puntata numero 48 del 'Viaggio attorno al prete' del professor Vittorino Andreoli si occupa della questione dell’omosessualità. Nulla di clamoroso né di sconvolgente: ragionamento pacato che tiene conto – nel fondo – dell’impostazione classica data al problema in casa cattolica. Avrebbe potuto anche non esserlo, trattandosi dello scritto di un esperto 'esterno' alla redazione. Invece sostanzialmente era in linea. Ma giovedì Repubblica riprende la puntata in prima pagina, come se si trattasse di chissà che. Venerdì insiste; ma è il Secolo XIX, il quotidiano della Liguria, a fare il botto, con un’apertura a tutta prima pagina dal titolo goloso: «Ecco la mia vita di prete gay», con la confessione di un tal «padre Felice» che finalmente può fare outing, insomma esporsi, «dopo la svolta di Avvenire ». Questo l’antefatto giornalistico, vero. Da qui in poi fantastichiamo. Supponiamo che padre Felice non esista ma sia il parto della fantasia, per nulla fervida, della redazione ligure. Supponiamo che i cervelloni al lavoro di quel quotidiano siano in ambasce. Un giornale non nazionale, si sa, vive soprattutto di notizie (e titoloni) locali. Ma la guerra di Gaza, con i suoi morti e il suo carico di angoscia, 'costringe' la redazione a proporre ai lettori liguri titoli analoghi ai fogli nazionali. I lettori, pensano i cervelloni, sono stressati. Basta con morte e disperazione. Ci vuole qualcosa di locale e diverso. Ci vuole una botta di vita. E – oh come stiamo fantasticando – se non c’è, creiamola! Che cosa di meglio dell’abbinata Chiesa-sesso? Avvenire, tramite Repubblica, fornisce una spintarella ai neuroni pigri dei cervelloni: un prete gay che si autodichiara, ecco che cosa ci vorrebbe. Fine delle fantasticherie. Padre Felice non avrà difficoltà a telefonarci dandoci prova provata della sua esistenza. Gli garantiamo lo stesso anonimato garantitogli dal giornale genovese. Certo fa pensare, ed inquieta, che la vita dei preti italiani non desti alcun interesse per 94 pagine di fila (2 per 47 puntate) ma sollevi la libera e democratica e impavida stampa soltanto quando si parla dell’omosessualità. Chi ha il chiodo fisso, i cattolici o i laiconi militanti? Ma a inquietare di più è il forte, fortissimo dubbio che certe nostre fantasticherie possano – orrore – rivelarsi vere. Che padre Felice non esista, sia solo un prodotto fantastico. In tal caso, quale squallida opinione avrebbero dei loro lettori i cervelloni annidati al Secolo XIX? E in quali abissi starebbe sprofondando il nostro (un tempo nobile) mestiere? In forma privata, non mancano i giornalisti di peso che sorridendo spiegano: piuttosto che una notizia vera ma debole, meglio una inventata ma che si faccia leggere. Proprio così, come se la differenza tra verità e finzione fosse un dettaglio, di cui il lettore è meglio rimanga all’oscuro. Ebbene, noi non ci stiamo. Tra noi e chi ci legge, pagando, esiste un patto tacito ma ferreo: voi ci date fiducia e noi non vi imbroglieremo mai, e se sbaglieremo – perché nessuno è perfetto – ci correggeremo chiedendovi scusa; ma non saremo mai spacciatori di menzogne. Sappiamo che certi colleghi, quando sentono parole come queste, ridacchiano. Intanto i giornali italiani perdono copie su copie, senza che la cosa provochi domande radicali sul modo in cui facciamo giornalismo e trattiamo i nostri ultimi lettori. Ridacchiano giulivi, loro, sulla barchetta di carta con su scritto Titanic. | SECOLO XIX 12.01.2009 |
Padre felice in tv. E adesso che cosa dice Avvenire? |
Editoriale |
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| Forse è vero che Dio acceca chi vuol perdere. Dopo aver dato fondo a ogni sorta di insulto con la penna del suo direttore, Dino Boffo, ieri il giornale della Conferenza episcopale italiana, Avvenire, affida a Umberto Folena il compito di sparacchiare contro Il Secolo XIX per l'intervista al sacerdote omosessuale pubblicata venerdì. Gli argomenti di Folena sono gli stessi e ruotano attorno alla certezza che il sacerdote non esista e l'intervista sia stata inventata. Per svolgerli, egli sceglie l'artificio retorico reso celebre da Jonathan Swift. Cerca di mischiare fantasia e satira. E non si sottrae, naturalmente, all'ennesimo pistolotto sulle miserie del giornalismo di provincia (che sarebbe poi il nostro). È un vero peccato che Folena sia, appunto, soltanto Folena e che non basti essere afflitti da bulimia digitatoria (è autore di una decina di libri) per diventare un altro Swift. Tanto più che proprio ieri, alle 12.55, nella trasmissione "Racconti di vita", RaiTre ha mandato in onda l'intervista a "Padre Felice". Proprio lui, in carne e ossa, sia pur ripreso di spalle. Ooops. E adesso?
LANFRANCO VACCARI | |