De Rita in questo editoriale colpisce nel segno. Molto istruttivo.
Una unilta collettiva!!! bello.
Italia Ostaggio del Degrado
GOVERNARE LA CONTINGENZAIl commento
Italia Ostaggio del Degrado
Alcuni amici stranieri, attribuendomi una autorità morale che forse non ho, mi rimproverano da tempo di non esprimere adeguata indignazione, adeguato richiamo etico, almeno adeguata segnalazione del senso del ridicolo rispetto allo spettacolo che va da mesi in onda nella nostra arena pubblica.
Qualche scusante più o meno giustificativa penso di averla. Anzitutto non mi indigno, perché avverto che l'indignazione serve molto per infiammare gli animi ma poco per stabilire una seria dialettica politica, al di là delle strumentalizzazioni spesso taroccate che essa subisce. In secondo luogo non faccio richiami etici, perché sono convinto che il moralismo non si traduce mai in cultura di governo e che ancor meno ci si può aspettare dall'immoralismo di potere, specialmente in una società dove tutto galleggia su una diffusa amoralità quotidiana. Ed in terzo luogo non segnalo i pericoli di cadere nel ridicolo, perché temo che sia una battaglia persa in un sistema dove una suora conciona le folle e dove centinaia di parlamentari sottoscrivono versioni inverosimili (tipo «la nipote di Mubarak») su vicende su cui ridacchia anche il mio portiere romeno.
Non me la sento quindi di esercitare la triplice nobiltà che mi è richiesta, anche perché, anzi specialmente perché, sono convinto di un'altra e seria verità: questo è un Paese che ha un drammatico bisogno di essere governato, ma dove è proprio nel vuoto di ogni cultura di governo (cioè di comprensione e gestione del sistema) che la dialettica sociopolitica ha subito una torsione verso il basso, verso pulsioni emotive spesso avventate, verso comportamenti di pura inerzia di potere. O ci diamo una mossa a elaborare una nuova cultura di governo o continueremo ad esser prigionieri del degrado, anche istituzionale.
Da dove si parte per tale elaborazione? La risposta è difficile e comporta l'umiltà di tempi lunghi, perché il primo passo, assolutamente indispensabile, è quello di mettere in ombra per qualche anno le due parole-mito degli ultimi decenni: programmi e riforme. Non illudiamoci: chi propone programmi (magari straordinari, magari enfatizzati a «frustate») rischia di scrivere inutili scenari o pacchetti di improbabili misure; mentre chi propone riforme rischia di ripetere ipotesi ormai strutturalmente incapaci di tradursi in incisive decisioni strategiche. Posso dichiarare il mio personale dispiacere, ma non posso fare a meno di dire che i due strumenti sono troppo usurati per far da base ad una cultura di governo buona per gli anni futuri.
Avanzo quindi l'ipotesi che oggi occorre attrezzarsi a «governare la contingenza», cioè i fenomeni ed i processi che via via si presentano nell'evoluzione socioeconomica, senza farsi prendere dalla nostalgia per la magica parola «vision» su cui si basa il cosiddetto primato della politica.
È infatti evidente che nella società moderna «non ci sono che processi» (dalla globalizzazione all'esplosione dei flussi migratori), che spiovono dal di fuori e creano incertezze e sfide per tutti i soggetti sociali, piccoli e grandi che siano; essi di conseguenza possono essere gestiti solo fenomeno per fenomeno, soggetto per soggetto, caso per caso, decisione per decisione, in un crescente primato della contingenza.
È la indiscutibile realtà di fatto, con tutta la sua carica di relativismo nei giudizi e diempiria continuata nei comportamenti. Ne troviamo più che facile conferma nella attuale situazione italiana dove dobbiamo fronteggiare solo delle contingenze: la ripresa degli sbarchi di immigrati, la esplosione politica del Nord Africa, il rientro dal debito impostoci dalle nuove direttive europee, l'egoismo aziendale di molte imprese che vivono di globalizzazione, la risistemazione della finanza locale in vista del federalismo, l'incidenza del permanere della crisi occupazionale sulle decisioni economiche delle famiglie, la bolla dei due milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Bastano, credo, questi fenomeni per mostrare quanto sia fuori luogo una politica centrata su programmi e riforme; e quanto siamo obbligati a introiettare la contingenza come riferimento strutturale di una cultura di governo meno nobilmente ambiziosa e più faticosamente quotidiana di quella che ha ispirato la politica negli
ultimi decenni. Ed è questa la prospettiva su cui un po' tutti dobbiamo fare maturazione culturale: dalle imprese alle istituzioni, dalle famiglie alle rappresentanze d'interesse. Uniti tutti nel misurarci sul contingente, nell'incertezza e addirittura nella finitezza dei nostri poteri; e con una conseguente umiltà collettiva che ha meno riscontri mediatici ma maggiore qualità etica rispetto alle troppe indignazioni che oggi tengono banco.
Qualche scusante più o meno giustificativa penso di averla. Anzitutto non mi indigno, perché avverto che l'indignazione serve molto per infiammare gli animi ma poco per stabilire una seria dialettica politica, al di là delle strumentalizzazioni spesso taroccate che essa subisce. In secondo luogo non faccio richiami etici, perché sono convinto che il moralismo non si traduce mai in cultura di governo e che ancor meno ci si può aspettare dall'immoralismo di potere, specialmente in una società dove tutto galleggia su una diffusa amoralità quotidiana. Ed in terzo luogo non segnalo i pericoli di cadere nel ridicolo, perché temo che sia una battaglia persa in un sistema dove una suora conciona le folle e dove centinaia di parlamentari sottoscrivono versioni inverosimili (tipo «la nipote di Mubarak») su vicende su cui ridacchia anche il mio portiere romeno.
Non me la sento quindi di esercitare la triplice nobiltà che mi è richiesta, anche perché, anzi specialmente perché, sono convinto di un'altra e seria verità: questo è un Paese che ha un drammatico bisogno di essere governato, ma dove è proprio nel vuoto di ogni cultura di governo (cioè di comprensione e gestione del sistema) che la dialettica sociopolitica ha subito una torsione verso il basso, verso pulsioni emotive spesso avventate, verso comportamenti di pura inerzia di potere. O ci diamo una mossa a elaborare una nuova cultura di governo o continueremo ad esser prigionieri del degrado, anche istituzionale.
Da dove si parte per tale elaborazione? La risposta è difficile e comporta l'umiltà di tempi lunghi, perché il primo passo, assolutamente indispensabile, è quello di mettere in ombra per qualche anno le due parole-mito degli ultimi decenni: programmi e riforme. Non illudiamoci: chi propone programmi (magari straordinari, magari enfatizzati a «frustate») rischia di scrivere inutili scenari o pacchetti di improbabili misure; mentre chi propone riforme rischia di ripetere ipotesi ormai strutturalmente incapaci di tradursi in incisive decisioni strategiche. Posso dichiarare il mio personale dispiacere, ma non posso fare a meno di dire che i due strumenti sono troppo usurati per far da base ad una cultura di governo buona per gli anni futuri.
Avanzo quindi l'ipotesi che oggi occorre attrezzarsi a «governare la contingenza», cioè i fenomeni ed i processi che via via si presentano nell'evoluzione socioeconomica, senza farsi prendere dalla nostalgia per la magica parola «vision» su cui si basa il cosiddetto primato della politica.
È infatti evidente che nella società moderna «non ci sono che processi» (dalla globalizzazione all'esplosione dei flussi migratori), che spiovono dal di fuori e creano incertezze e sfide per tutti i soggetti sociali, piccoli e grandi che siano; essi di conseguenza possono essere gestiti solo fenomeno per fenomeno, soggetto per soggetto, caso per caso, decisione per decisione, in un crescente primato della contingenza.
È la indiscutibile realtà di fatto, con tutta la sua carica di relativismo nei giudizi e diempiria continuata nei comportamenti. Ne troviamo più che facile conferma nella attuale situazione italiana dove dobbiamo fronteggiare solo delle contingenze: la ripresa degli sbarchi di immigrati, la esplosione politica del Nord Africa, il rientro dal debito impostoci dalle nuove direttive europee, l'egoismo aziendale di molte imprese che vivono di globalizzazione, la risistemazione della finanza locale in vista del federalismo, l'incidenza del permanere della crisi occupazionale sulle decisioni economiche delle famiglie, la bolla dei due milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Bastano, credo, questi fenomeni per mostrare quanto sia fuori luogo una politica centrata su programmi e riforme; e quanto siamo obbligati a introiettare la contingenza come riferimento strutturale di una cultura di governo meno nobilmente ambiziosa e più faticosamente quotidiana di quella che ha ispirato la politica negli
ultimi decenni. Ed è questa la prospettiva su cui un po' tutti dobbiamo fare maturazione culturale: dalle imprese alle istituzioni, dalle famiglie alle rappresentanze d'interesse. Uniti tutti nel misurarci sul contingente, nell'incertezza e addirittura nella finitezza dei nostri poteri; e con una conseguente umiltà collettiva che ha meno riscontri mediatici ma maggiore qualità etica rispetto alle troppe indignazioni che oggi tengono banco.
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